EVGE – HOMEWARD (2019), di Nariman Aliev

Nariman Aliev, giovane scrittore tataro di Crimea, debutta alla regia e alla sezione Un Certain Regard con un altro viaggio, l’ennesimo di questa Cannes72, alla ricerca di un’identità, di un luogo, o forse più semplicemente del dovere di un ricordo. Sullo sfondo c’è un ritratto di famiglia dal destino comune con molte altre di etnia tatara, deportati da Stalin nel ’44 e alla costante ricerca di un proprio luogo in cui poter vivere anche dopo il 1989 della caduta della cortina di ferro. Situazione storicamente disperata e ancora oggi assai problematica, perché né il governo di Kiev né la maggioranza di cultura russa in Crimea, successiva agli occupanti slavi, è interessata a far tornare i tatari alla loro terra dopo la caduta dell’URSS. Un gruppo etnico che si assesta intorno al dodici per cento, Popolo di famiglie e anime apolidi costrette a vivere e a vagare attorno alla loro terra di nascita e alle loro radici potendole vedere solo nella notte, quasi da fuggiaschi. In questo quadro storico-politico, continuamente traslato tra passato e presente, Aliev costruisce il suo folgorante dramma minimale e visionario. Nell’ottica della doppia persecuzione russa (quella sovietica e quella del 2014), il vivere quei luoghi è un atto esistenziale e resistenziale di profondo desiderio; soprattutto per chi è cresciuto lontano (come il nostro protagonista, in Uzbekistan) e ora vuole tornare al contatto fisico con quella terra, con quell’acqua, con quel sole. Anche a rischio della sua stessa vita.

Il film si apre in maniera glaciale, in un obitorio, dove un padre e il suo più giovane rampollo riconoscono e recuperano il corpo del figlio maggiore della famiglia. Un primogenito ucciso da soldato nel conflitto infinito del Donbass, dove aveva scelto di essere volontario contro la volontà del padre, che si infuria con il figlio minore quando anch’egli palesa la volontà di arruolarsi. Ed è proprio quel corpo morto, pieno di ferite da proiettili saturate in fretta, che diventa il protagonista del film. Attorno a lui, quasi fosse nella sua gelida immobilità una vera e propria entità spirituale più ancora che fisica, si consuma il dramma da camera, l’odissea di una viaggio verso la terra dell’esilio, per una sepoltura musulmana nella tradizione tatara. Ogni tappa pare l’ultima, dallo sfogo della madre ai problemi con la polizia, dai problemi tecnici al mezzo fino a quella frontiera impossibile da attraversare. mentre padre e figlio si scoprono e si raccontano, e dalla diffidenza iniziale si rendono conto di esser l’uno indispensabile all’altro, chilometro dopo chilometro. Nella tenacia folle del padre e nella dolcezza infantile del figlio si consuma la strada fino a quel luogo (dell’anima), apparentemente irraggiungibile. Arrivati sulle spiagge di Crimea il tempo pare fermarsi, inesorabilmente, quando il rito funebre diventa evocazione e mito; il mondo estraneo a quel lembo di terra pare scomparire agli occhi di chi lì, e solo lì, riconosce il suo essere. Nel finale tutto pare scomporsi in un delirio di riflessi e oscurità, in cui il padre come ultimo sforzo di una vita sarà finalmente davanti al baratro di una fossa. Il termine (ultimo?) di quel viaggio.

Evge (Homeward nel titolo internazionale, En terre de Crimée in quello, suggestivo ma un po’ didascalico, francese) è visivamente sorprendente e stilizzato, costruito in micro-unità drammatiche che prima deflagrano e poi continuamente si ri-compogono. La macchina da presa pedina questo abbozzo di famiglia, amplificando le loro emozioni interiorizzate e sfuggenti. La loro dinamica è la stessa che costituisce il film, soprattutto quando compare il fratello del padre, proprio nell’arrivo in Crimea. Un elemento di rottura rispetto alla dialettica del rapporto, una ferita che ricostruisce l’impossibilità di una trama familiare che esprime metaforicamente una condizione umana esiliata, nell’utopia di un ritorno. Aliev lavora attorno ai suoi protagonisti, e sembra che il set stesso possa esplodere in ogni incrocio, in ogni scontro, in ogni momento di rottura. Attraversa i suoi personaggi e dona loro un senso continuo di autodeterminazione rispetto a quello spazio, riconquistato solo come atto ultimo di addio nei confronti di una vita scomparsa in sacrificio – possa esso essere comprensibile o meno. Le ultime sequenze, abbagliate dalla luce e dalla rifrazione, nella bellezza astratta della Crimea, elevano quell’assenza, la sdoppiano ampliandola a un altro martirio, quello del padre. Figure piccolissime a fondo campo, minuscoli abitanti di una terra infinita. Nel continuo dialogo con la morte, attraverso la sua stretta, pulsa un desiderio malinconico di vita e di spazi che va a nero, lasciando solo il suono a immaginare cosa possa ancora esser successo. Voci che si cercano, sempre più distanti e forse irraggiungibili. Fino a quell’oblio che dall’apertura segue nel limbo tutto il fluire del film. Evge si conclude così, riflesso nella sua stessa esilità, vibrante e incapsulata. Come un lungo respiro che forse toglie il fiato.

Erik Negro