EUROPA 2005 – 27 OCTOBRE (2006), di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet
Uno sguardo, 50 anni e un attimo. Uno sguardo ad attraversare mezzo secolo, una panoramica che è movimento spaziale e temporale. “Sì, è la parte più bella del film”. È in quel movimento, in quel velo che cade che Straub trova il momento più alto in Europa 51.
Europa 51, Europa 2005, un filo sottile, gli occhi di Ingrid/Irene presi in prestito per squarciare il velo, per mostrare la realtà delle cose, quella non imposta, presa in prestito, prima da Rossellini, poi dallo stesso Jean-Marie e Daniéle.
C’è un senso di deja-vu, qualcosa che solo a posteriori ci si può spiegare. È il 2005, centesimo anniversario dalla nascita di Rossellini. Enrico Ghezzi incarica Straub e Huillet di girare un cortometraggio per questa ricorrenza. la coppia francese gira 10 inquadrature. 2 panoramiche ripetute entrambe per 5 volte. 5, 50 anni, 2005. Ancora una volta è il cinema topografico di Straub e Huillet, ancora una volta diventiamo coscienti di quei luoghi dove i fatti sono accaduti. Ma che luogo è quello delle due panoramiche? Di che fatti parliamo? È il luogo dove l’Europa si è mostrata ancora una volta, dove il velo è caduto nuovamente, è il luogo dove due vite umane sono state spezzate perché lontane dai luoghi dove l’Europa esiste e si mostra, perché nate dove le esistenze valgono poco, o sono addirittura un carico, e allora possono essere spente senza dover pagare il fio del rimorso. È qui che persero la vita Bouna Traoré e Zyed Benna.
Straub, uno sguardo, Irene. Questo velo, questo velo che Straub e Huillet fanno cadere, è lo stesso di 50 anni fa, nulla è cambiato, siamo ancora vittime degli stessi inganni, della stessa cecità, degli stessi paraocchi.
E allora c’è bisogno di mostrare la realtà, di mostrare i luoghi, per far prendere coscienza.
“È la parte più bella del film”. Irene arriva nella periferia di Roma, vede per la prima volta ciò che il mondo borghese in cui viveva non le permetteva di ricevere, vede ciò che l’Europa nascondeva sotto il tappeto. Muove la testa spaesata, cercando di comprendere le immagini che le si palesano davanti. Ed è qui che Rossellini prende gli occhi di Irene, e le chiede questo sacrificio: divieni macchina, così che io possa mostrare quello che vedi tu. E lei si fa macchina, i suoi occhi registrano. Una panoramica, da destra a sinistra, e il velo è squarciato. 50 anni dopo, a Clichy-sous-Bois, Straub e Huillet chiedono nuovamente a Irene di sacrificarsi, ancora una volta quegli occhi, 2 panoramiche, il velo rattoppato con tanta cura dalle istituzioni crolla di nuovo.
“È la parte più bella del film”, e i due sanno bene cosa c’è in quello sguardo, la fine dell’ipocrisia borghese, la presa di coscienza della realtà delle cose. E lo si fa con la pratica, perché Rossellini va in quei luoghi, non mostra al personaggio, mostra a noi, è a noi che quelle immagini sono rivolte, perché ci si liberi, ci si deterritorializzi da quei recinti imbastiti dal potere. Tutto quello che credeva essere l’unico mondo esistente, possibile, si mostra essere solo un’impalcatura, che crolla con un solo sguardo, una topografia dell’Europa e di quello che davvero cela dietro di sé. Sono passati 50 anni e quello sguardo è ancora valido, squarcia ancora quelle impalcature; diveniamo consci, con 2 panoramiche, di vivere in una società che permette la morte di due persone, la fine di due vite che sono esattamente come me, te, voi in questo momento, che erano presenti, che erano coscienti di esistere, portatori di una memoria di sentimenti ed immagini, persone, e lo permette perché queste sono aliene ai nostri confini, lo permette perché queste vite sono straniere al vivere nell’Europa delle tv e delle istituzioni. A Straub e Huillet basta inquadrare la il trasformatore elettrico dove i due ragazzi morirono fulminati, nascostisi per sfuggire alla polizia. 50 anni, ma è come se fosse passato un attimo. Irene volta la testa verso sinistra, siamo a Roma, Irene volta la testa verso destra, siamo a Clychy-sous-Bois. Non si tratta più di sola immagine, si tratta di liberarsi attraverso di essa, di prendere coscienza per la prima volta, lo sguardo che libera dall’ipnosi, dalla catatonia in cui eravamo piombati. Bisogna resistere contro questo soffocare, questo impedire lo sguardo, e Straub trova negli occhi di Irene l’unica forza, l’unica vera forza rivoluzionaria che il cinema abbia mai creato. Le ipocrisie cadono con un semplice movimento di macchina, sta tutto lì, non serve altro. Sono 50 anni e un attimo, 50 anni e un’Europa ancora pronta a vivere sugli scheletri delle proprie menzogne. 50 anni e uno sguardo, Irene, tra le sbarre, a guardare noi, mentre la compatiamo. Povera lei, che follia.
Maurizio Marras
EDIT
Prendiamo a prestito dagli amici di Quinlan.it, nella penna di Raffaele Meale, il doloroso resoconto di una proiezione romana. Perché squarciare il velo dell’ipocrisia è un’urgenza sempre più pressante, ed il ricordo di tali becere manifestazioni sia monito perché non si verifichino mai più. (?) (M.R.)