ÊTRE VIVANT ET LE SAVOIR (2019), di Alain Cavalier
Il cinema è riscrittura, sempre. Della realtà, di una pagina o del cinema stesso. L’ha sempre sperimentato nella sua infinita serie di ritratti Alain Cavalier, in un dialogo attorno a chi e che cosa ci sta attorno che continua ininterrotto, indefinito e profondissimo fin dai primissimi anni Sessanta. Mai radicale come Straub, mai estremo come Rousseau, ma la poetica (e politica) di cinema di Cavalier rimane purissima, sostanzialmente unica. Lui stesso da una ventina d’anni non si definisce più regista ma “filmeur”, quasi un ritorno all’infanzia del filmare, una forma di primitivismo che è sempre lui a citare nei frammenti finali di questo Être vivant et le savoir, presentato prima fuori concorso fra le Proiezioni Speciali del Festival di Cannes 2019, e successivamente al DocLisboa. Un film che pulsa nella sua presenza costante di intimo dolore ri-scritto (appunto) in un’ottica dialettica di speranza incapsulata nel ricordo. Gira con la sua Mini-Dv Cavalier, da artista-artigiano, e ripercorre l’idea di un film per strutturarne un altro, o forse si aggrappa solo a quella telecamera per superare la morte, i fantasmi, la solitudine in cui il cinema spesso risolve la sua scrittura. Il tema è quello, la sottile linea che appare sempre più provvisoria tra l’esserci e lo scomparire, davanti a quella camera come nella vita. Il viaggio dell’anima forse è invisibile, ma lo si può immaginare così tenero e discontinuo, quasi apparente proprio come un fantasma continuamente evocato e mai visto. Si mostra solo nel contatto, nello sfiorare un’anima altra a cui si possa appartenere. Così la camera di Cavalier ri-scrive questo viaggio, lasciandoci forse la pagina bianca di un’altra storia.
Cavalier avrebbe dovuto girare un film su un testo di Emmanuèle Bernheim, morta di eutanasia dopo essere stato paralizzata per molto tempo. Il progetto però, quando il cancro di lei la divora inesorabilmente, inevitabilmente si blocca. Per tornare adesso come un viaggio nella morte (al lavoro) sdoppiata e riflessa, un oblio apparentemente assoluto in cui nessuna immagine pare poter esistere. Ecco che allora nemmeno lei appare, ma rimane scritta, accennata, evocata e forse sublimata. Nella figura di Emmanuèle pare respirare questo film, quasi fosse l’unico trasferimento possibile di energie vitali da un corpo pronto a lasciare questo pianeta a un film a esso dedicato, che però non avrebbe potuto esistere senza un sacrificio. Pare sadismo, ma non lo è, e anzi è proprio qui che sta la vertigine. Cavalier riscrive il suo ritratto con la morte, e forse ri-tratta proprio con lei. Accosta frammenti di Emmanuèle, li ricompone, la guarda al montaggio, accosta schegge di immagini laddove la vita appare solo apparenza. Donare un’altra esistenza a una scultura (un crocifisso, tra l’altro) è tornare a guardare chi l’ha scolpita. L’inferno rimane fuori-campo, perché la vita è incapsulata nella memoria, e sopravvive solo nel comporre quei frammenti che ci siamo lasciati alle nostre spalle come senso tangibile di questo passaggio. Nulla di noi può rimanere se non le orme o le ombre, qualcosa di fragilissimo in fondo, ma che può tornare forse all’infinito. Nel carteggio, tenero e inesorabile, tra Alain e Emmanuèle in fondo ci sta scritto questo. Non resta che ri-scriverlo.
Potrebbe apparire anche come una riflessione questa, che abbraccia l’intera opera di Cavalier, dalla militanza politica al ritratto, dalla ricerca personale all’abbandono intimo di fronte alla camera. Proprio quella camera che scava all’interno degli oggetti, ne ricerca l’ultimo brandello di anima che può essere presente, insegue viaggi e corpi, volti e lettere. Il quotidiano è l’unica questione del reale possibile oramai, pure se esso contiene il dramma della fine, dove ogni segno e simbolo indica il baratro del passaggio di un tempo impercettibile che memorizza (e marmorizza) i pensieri ed erode l’esistenza. La morte diventa simulazione e immaginazione di un passaggio, l’impressione di un altro spettro di vita che pare necessario per risvegliare l’energia di tutto quel pensiero. Non si tratta di Fede, ma solo di una flebile speranza che proprio il rapporto con l’immagine ci dona, il suo essere provvisoriamente morta per rimanere costantemente viva e incapsulata. Un fossile, un simulacro, una traccia oramai di pixel più o meno numerosi e di enormi codici apparentemente infiniti. Ed ecco che appare Emmanuèle poco prima dei titoli di coda (acquarelli dipinti a mano, proprio come quelli di testa). Appare dopo migliaia di parole, telefonate o scritte, diagnosi ed evocazioni. Appare con un sorriso, appare per lo stesso Cavalier, perché donarci quel sorriso è come per lui re-incontrarla, farci partecipi di quel viaggio di anime che si percepiscono e si sfiorano non potendosi mai più abbandonare. Non c’è spazio perla disperazione, perché come il libro di Emmanuèle aveva risolto la morte del padre (che sarebbe stato proprio lo stesso Cavalier a interpretare se fossero riusciti a portarlo in scena), questo film risolve la sua. Il risolvere nell’atto etimologico dello sciogliere, scomporre, chiarire ciò che è oscuro (e che è oscuro). Essere vivi e conoscere, conoscersi, trovarsi faccia a faccia con l’oblio e giurarsi amicizia eterna per poi magaru scriverlo. Ecco l’atto d’amore che la morte non può oscurare, e che il cinema che nella sua riscrittura (e nel suo sdoppiamento, proprio come quello della morte stessa) celebra attraverso una ricerca di vita.
Erik Negro