Nemmeno sullo schermo cinematografico basta indossare una spilla con l’effigie di Robert Smith o sparare a palla i Cure nella loro pur meravigliosa In between days per ritornare a metà degli anni Ottanta, ma servirebbe riviverli. Nemmeno sullo schermo cinematografico basta cercare la facile emozione sulle note di Sailing di Rod Stewart per convincersi già a 16 anni di aver già capito l’amore e la morte, ma servirebbe un reale impianto poetico su cui lasciarla germogliare. Nemmeno sullo schermo cinematografico basta dirigere attori giovani, soprattutto se si mettono loro in bocca pensieri e ossessioni da cinquantenni, per rappresentare l’adolescenza, ma bisognerebbe “sentirla” prima di metterla in scena. Servirebbe ben altro a Été 85, «storia di un cadavere che conoscevo quand’era vivo e di come è diventato cadavere» che François Ozon ha tratto dal romanzo Danza sulla mia tomba di Aidan Chambers, giunto in prima italiana, dopo il “bollino” del non-Festival di Cannes, l’uscita in sala in Francia e la passerella in concorso a San Sebàstian, alla quindicesima Festa del Cinema di Roma. Un film di flashback orali e scritti, di momenti felici e di crisi, di lacrime e di rimpianti, in cui il giovanissimo protagonista Alexis, da sempre ossessionato dall’idea della morte ma mai nella vita possibile omicida, ritorna ai sessanta giorni della sua prima e folgorante (e tutto sommato meccanica) storia d’amore, dramma, gelosia e morte con l’aitante diciottenne David Gorman, lungo l’estate dell’85 nella minuscola località balneare normanna di Tréport. Da una parte l’introverso, l’insicuro, l’emotivo, e dall’altra il viveur mondano, carismatico e indipendente, esuberante e focoso, amante della velocità e delle passioni, destinato a morire per cercare di tornare dall’amato. Una storia di gite in barca e di serate in discoteca, di corse in moto e di risse, di nottate destinate a rimanere fuori campo e pettini a serramanico con cui aiutare (o più probabilmente rimorchiare) uomini e donne. Una storia di promesse da mantenere e di legami che continuano anche quando diventa impossibile parlarne, di montagne russe e di ferite da tamponare, di baci appassionati nel retrobottega e di abbracci sulla sella della moto. La storia del paradossale mancarsi anche quando si è insieme, del non bastarsi mai, ma anche una storia di noia che diventa gelo, di tradimenti eterosessuali e di morte, di sensi di colpa e di malinconia. Eppure, si diceva, non basta innestare qualche depistaggio intinto nel noir fra il melodramma e il romanzo di formazione, per nascondere la vacuità di un film che ha troppo poco da dire. Non basta girare nella grana frizzante del super16 per dare vita a una sceneggiatura piatta e infarcita di cliché, per trasformarla in bel cinema. Non basta scrivere, narrare e mostrare quando a mancare è un’anima, la sincerità poetica delle emozioni, un reale sguardo nel coglierle e trasporle sul grande schermo.
Vorrebbe guardare apertamente tanto all’intensità rohmeriana di Kechiche quanto alle incursioni fra i generi di Polanski, Été 85, e di sicuro un po’ anche al (quasi ovunque ipervalutato e superpremiato, per quanto non certo da imitare nella sua sostanziale insincerità) Luca Guadagnino di Call me by your name. Vorrebbe creare un affresco dell’adolescenza fatto di istanti, passioni ed emozioni, dell’innamorarsi dell’idea stessa dell’amore, della gioia e della sofferenza di tutti noi a quell’età, innestato sullo sfondo di una detection di scene del delitto e di segreti (in)confessabili, di verità da far emergere, di carta da riempire di parole per farsi personaggio e in qualche modo «sfuggire alla propria storia» raccontandola come se riguardasse un altro o ancor meglio la fantasia. Del resto, anche il travestirsi da donna per poter vedere un’ultima volta David in obitorio nient’altro è che interpretare un personaggio, e lo è in qualche modo anche il mantenere la parola (d’amore) data in vita di danzare sulla tomba di un amato a sua volta (auto)narrato e idealizzato, reso immagine e racconto, reso attore del suo stesso concetto. Eppure, complici i personaggi di contorno stupidi, stereotipati e programmatici, fra la madre vedova, pazza, invadente e quasi sempre fuori luogo di David interpretata da Valeria Bruni Tedeschi e i monodimensionali genitori del protagonista, troppo accomodanti e troppo assenti nella loro umile estrazione sociale e nella loro incapacità di capire il figlio, fra gli assistenti sociali e i poliziotti che cercano una verità di fatto inutile per le indagini su una morte per incidente automobilistico e l’insegnante/mentore già sedotto in passato da David che spronerà Alexis alla scrittura, senza dimenticare l’ubriaco salvato da David probabilmente solo per essere una nuova speranza dopo la sua morte e la giovane inglesina Kate così smaccatamente funzionale prima nel cedere al flirtare di David di fronte ad Alexis che gliel’ha appena presentata e poi nel diventare per il protagonista l’unico possibile aiuto e l’unica possibile persona con cui confessarsi dopo la tragica morte dell’amato, il nuovo lavoro di Ozon esplicita lungo il suo scorrere tutti i suoi limiti di sceneggiatura e di uno sguardo che quasi mai riesce davvero a trasmettere l’emozione. Porta sullo schermo tutta la sua meccanicità e tutte le sue approssimazioni (perché, per esempio, il padre di Alexis serve di fatto solo per mandare una lettera e uno zio transessuale viene nominato ma non appare né ha utilità alcuna?), si perde nei cliché e nelle esagerazioni, ricorda a ogni piè sospinto tutta la sua distanza siderale dai probabilmente irraggiungibili modelli che vorrebbe rimettere in scena. Certo, c’è la sequenza dolaniana in discoteca che cita le cuffie in pista de Il tempo delle mele, c’è lo splendido pianosequenza frontale sull’ottovolante, ci sono i momenti insieme al cinema, in barca, in casa e nel negozio, c’è il reciproco disinfettarsi dopo aver fatto a botte con gli omofobi, ci sono la pudicizia della porta chiusa e del detto-non-detto nella prima indimenticabile notte d’amore. Ma sono solo piccoli istanti sparuti, flebili lampi di un’intensità che è solo media nel deserto arido di un film che rasenta pericolosamente la stessa inconsistenza della sequenza in cui Alexis, appena rimasto solo, passa inutilmente in rassegna tutte le possibili modalità di suicidio. Un film profondamente “di Ozon”, in cui le tematiche più ricorrenti del sempre spiazzante autore francese giocano a inseguirsi fra l'(omo)sessualità e il ripercuotersi del tempo, fra la gioventù da tallonare e i triangoli amorosi, fra i doppi (i due ragazzi, le due madri, il cambio temporaneo di sesso) e il lutto, e in cui sempre tipiche di Ozon sono le cadute, i troppi momenti – basterebbe la reazione spropositata del personaggio della Bruni Tedeschi, che dopo il lutto tratterà il dolente e tormentato protagonista come se fosse un omicida – in cui si scarterà dai binari della credibilità e di ogni senso logico. Un film che a differenza di altri Ozon passati, fra 8 donne e un mistero e Frantz, non riesce in alcun modo a essere “bello”, e che a differenza di altri Ozon passati, in testa il kitsch/trash del guilty pleasure L’amant double, non ha nemmeno il coraggio di osare fino a essere “brutto”. Si innesta lì, nel limbo, nella sterilità, nella zona grigia della mediocrità. Pronto solo per essere ben presto dimenticato.
Marco Romagna