C’è un momento ben preciso, in Era uma vez Brasília, in cui il cinema del regista e intellettuale brasiliano con un curioso passato da calciatore Adirley Queirós rifiuta espressamente ogni tipo di classificazione, lasciando in montaggio – o probabilmente girando apposta – il campo lungo di una sedia a rotelle ferma nella notte. Nel cielo, mentre procedono verso un colpo di Stato che, più che finzione, sembra quasi una metafora della recente destituzione dell’ex presidentessa corrotta Dilma Rousseff, sfrecciano gli elicotteri dotati di potenti fari per la ricerca e repressione dei dissidenti, alla ricerca degli uomini che si pongono come possibili ostacoli per la riuscita della cerimonia di inaugurazione di Brasilia. Nell’andirivieni volante dei mezzi di trasporto, a un certo punto, si allunga verso il protagonista l’ombra della macchina da presa, dell’operatore che la tiene in mano e del microfono piazzato lì vicino, ed è proprio qui che Era uma vez Brasília, svelando il suo dispositivo, si pone unicamente come cinema, come riflessione/narrazione che si dipana per mezzo delle immagini in movimento e dei suoni, fra attese e azioni, fra illusioni e tecnica, fra afflato sociale e ben precisa potenza politica. Come a dire allo spettatore che ciò che sta guardando va preso semplicemente per quello che è, un film, senza che sia necessario ingabbiarlo in alcuno schema predefinito, e forse anche senza che sia necessario rimettere a posto tutti i tasselli. Avevamo già avuto modo di conoscere e apprezzare il cinema sospeso fra fantascienza e documentario di Queirós poco meno di tre anni fa, in occasione del passaggio della sua opera seconda Branco sai preto fica in Internazionale.doc al Torino Film Festival. Solo successivamente, stimolati nella curiosità, abbiamo avuto modo di recuperare il suo lungometraggio d’esordio, A Cidade é uma Só, rendendoci conto di come la sua commistione fra reale e pura finzione all’interno del cinema di genere, così come la centralità di Brasilia, costruita per imposizione governativa e inaugurata nel 1960, e della sua città satellite Ceilandia, creata invece negli anni Settanta come una sorta di ghetto per poveri e disagiati con il quale cercare di arginare la crescita esponenziale delle favelas, fossero un vero e proprio marchio di fabbrica del linguaggio del regista, la sua biografia e la sua più viva ossessione, la sua unicità più intrigante.
La sua opera terza Era uma vez Brasília, presentata all’interno dell’ottima selezione di Signs of Life di Locarno70, evolve per alcuni versi il suo sguardo registico, rimanendo però rigorosamente fedele alla stessa linea documentar/narrativa dei lavori precedenti, alla stessa riconoscibile estetica e alle stesse tematiche. È la pura realtà del Brasile odierno – un Brasile falcidiato dalla corruzione e dalla povertà, dalle ingiustizie sociali e dai continui controlli di polizia, dalla repressione e dall’euforia pre e post-olimpica vissuta dai potenti sulle spalle del Popolo – ciò che sembra illuminare il fascio di luce delle immagini, eppure nelle forme il cui il film si muove è altrettanto pura la finzione di una fantascienza rigorosamente artigianale, quasi baviana, fatta degli interni di vecchie auto riarredati con gli oggetti più disparati, di maschere da saldatori e di macchine del fumo. È una fantascienza rigorosamente riflessiva, autoriale, dilatata nei tempi e nello sguardo delle inquadrature fisse; è una fantascienza che nient’altro è che un parallelismo della realtà, uno spunto sul quale lasciare che il cinema si faccia da solo nei suoi misteri e nei suoi simboli, una forma dalla quale lasciare emergere i tanti e interessanti elementi documentaristici e la ben precisa verve politica.
Nella finzione che incornicia quella che la stessa sinossi ufficiale definisce come un “documentario” girato nel tempo senza tempo dell’anno zero d.c. (dove d.c., anziché per “dopo Cristo”, sta per “dopo il colpo di Stato”), sorta di cortocircuito temporale forgiato sui corsi e ricorsi storici e sul far confluire le fasi più dolorose del passato/presente di un Paese in un’unica sincronia, l’agente intergalattico WA4 viene scarcerato e spedito sulla Terra per uccidere il presidente della Repubblica Juscelino Kubitschek – creatore di Brasilia nel ’60, accusato pochi anni dopo di corruzione dopo aver rilanciato l’economia dello Stato a costo di un aumento esponenziale del debito pubblico e morto in un incidente automobilistico nel 1974 – mentre a Ceilandia i detenuti vengono trasportati su un treno della metropolitana il cui display recita la data del 4/6/2017. Dopo un lungo viaggio di sigarette incenerite e di improvvisate grigliate di carne, in seguito alle avarie dei motori, la navicella spaziale di WA4 – che poi è un vecchio pulmino Volkswagen smontato e ricomposto, con la passione artigianale del cinema che annulla e anzi valorizza le ovvie ristrettezze di budget – è costretta ad atterrare (o meglio cade) a Ceilandia, capitale delle prigioni di Brasilia, dove sarà Andeia, mistreriosa regina del dopoguerra, a stringere le fila per creare un improbabile esercito pronto a muoversi verso il Parlamento e le mostruose creature che, impunemente, lo abitano, legiferando da sempre contro le classi sociali più povere e disagiate. Era uma vez Brasília porta sullo schermo un Brasile putrescente, un Brasile di detriti ferruginosi e umani, un Brasile sull’orlo della dittatura militare1 che ridurrà i suoi cittadini a numeri di matricole da recitare a memoria, proprio come gli ebrei nei campi, nel corso di ogni controllo militare notturno. E non è certo un caso che, durante il controllo, sulle antenne paraboliche delle case appaia ben visibile il logo di Sky, logo simbolo del potere economico multinazionale, logo simbolo, per una questione di diritti televisivi, delle scorse Olimpiadi di Rio che, fra i morti sul lavoro e la drastica riduzione dei servizi dovuta all’impiego di denaro pubblico, ha messo ancora una volta in ginocchio il Popolo brasiliano, per primi i carioca ma anche i paulisti, fino ai milioni di abitanti di Brasilia e dei suoi satelliti, città che non esistono, pianificate e imposte dai governi nel corso della Storia.
Sta già qui, nel paradosso della sua urbanistica, il cuore pulsante del film di Adirley Queirós. Quello che Era uma vez Brasília mostra/mette in scena, seppur fra digressioni e simbolismi non sempre gestiti a dovere, è l’organizzazione di una Resistenza che si pone come un messaggio chiaro e lampante nei confronti del Brasile di ieri, di oggi e probabilmente di domani. Bisogna prendere i ministeri e il congresso, bisogna farsi forza dal basso, bisogna unirsi e lottare quotidianamente per i propri diritti, contro quell’ipocrisia del presidente di turno che promette alla radio mirabolanti politiche economiche mentre (sper)giura sulla trasparenza del suo governo. Certo, Era uma vez Brasília non è un film perfetto. È un film con evidenti problemi di tenuta ogni volta che la narrazione si discosta dal filone principale, quasi come se buona parte dei personaggi che gravitano attorno a WA4 fossero poco più che riempitivi inseriti per rifocillare il minutaggio, ed è un film con altrettanto evidenti problemi di simbolismi incomprensibili, che tendono a perdersi in lunghi momenti affascinanti ma in definitiva sterili, apparentemente inseriti quasi più per “farlo strano” che per reale necessità narrativa o contenutistica. Il film di Queirós tende ad arenarsi sulla marcia dei teschi/fischietti, oppure a cadere nel kitsch in improbabili campionati fra lottatori di Ceilandia fatti di maschere di Jason Voorhees, combattimenti samurai, uomini felini e guanti da boxe, ma sarebbe profondamente sbagliato non difenderlo, non coglierne la ben precisa potenza storica e politica, non naufragare con la pura gioia di perdersi nei suoi interstizi fantascientifici che rielaborano la realtà in forme sempre nuove. Sarebbe profondamente sbagliato non prenderlo per quello che è, un film, con tanti pregi e con qualche piccolo difetto, con tanta originalità e ancor più passione, con le sue infinite stratificazioni e con il suo chiaro e condivisibile messaggio. Del resto, è già dai tempi di Glauber Rocha, e ancor di più da quelli di Rogerio Sganzerla e Julio Bressane, che il futuro del cinema non può fare a meno di passare dal Brasile. Non ci resta che guardare, assorbire, drizzare le antenne di fronte a ciò che ci propone. E disseppellire l’ascia, se possibile.
Marco Romagna
1 La dittatura militare in Brasile è un’altra realtà storica, che vide tre generali susseguirsi alla presidenza del Paese dal 1964 all’84, ma ben al di là delle ufficiali forme di governo uno dei principali sensi del film è che la situazione delle classi meno abbienti, così come quella relativa ai sordidi intrighi economici dei potenti, non parrebbe a oggi essersi più di tanto evoluta. Proprio per questo il tempo di Era uma vez Brasília è un presente storico e (im)possibile, nel quale tutto può (ri)accadere in diversi contesti.