EQUALS (2015), di Drake Doremus
Si può vivere senza provare emozioni? Si può rinunciare alla necessità umana di amare? Si può condurre un’esistenza spersonalizzata e anaffettiva, come pedine di un mondo seriale e iperproduttivo? Queste sono le (banali) domande alle quali Equals, nuova fatica del regista statunitense Drake Doremus in concorso a Venezia, cerca di trovare una risposta. In un futuro imprecisato e distopico nel quale gli esseri umani vengono prodotti attraverso gravidanze programmate, nascendo già in possesso di un inibitore cerebrale in grado di bloccare qualsiasi emozione, avere la capacità di provare sentimenti è classificata come malattia, l’SOS. Non esiste una cura per l’amore, solo bloccanti per rallentarne il decorso: chi si ammala, prima o poi, sarà destinato ad un centro nel quale morire in isolamento. Nell’agghiacciante routine di una società meccanica, repressa e controllata da un potere oscuro e invisibile, i personaggi interpretati da Nicholas Hoult e Kristen Stewart si ammalano, si trovano, si innamorano. Si separano, si ritrovano, affrontano la vita. Ma soprattutto, da buoni Romeo e Giulietta del prossimo secolo, gioiscono e soffrono, come le persone normali, evidenziando la fallibilità di una società così dispotica e rigidamente organizzata. Dai primi sguardi alla prima carezza, dagli incontri clandestini nel bagno alla prima notte di sesso, i giovani quanto illegali amanti vivono nella paura di essere scoperti, separati e annientati. Il loro maggiore timore, prima ancora che quello di perdersi, sembra piuttosto quello di essere prima o poi costretti a dimenticare le sensazioni provate, l’amore che li lega, la normalità.
Il problema -insormontabile- di un film come Equals non è tanto da ricercarsi sul fronte emotivo, che pure regala tratti (sparuti) di inaspettata dolcezza, quanto piuttosto nella forma smaccatamente derivativa e nella non-idea unitaria che muove il progetto. Configurandosi come un piatto epigono, oltre il limite del plagio, di un filone come il coming of age distopico, che da Hunger Games a Gattaca sembra non avere mai avuto -o quantomeno avere esaurito- l’originalità, il film di Doremus manca drammaticamente di sostanza, rivelando ben presto di non avere nulla da dire. Le pallide ambizioni sconfinano ben presto nella pretenzione di chi manca clamorosamente il punto, mentre una messa in scena che trasuda la banalità preconfezionata di un film già visto troppe volte, e mai piaciuto, si lancia nell’ampio utilizzo di effettacci fotografici à la Instagram, pronti ad illuminare in rosso il personaggio di turno che si sta umanizzando nel momento in cui prova emozioni. Ma non è l’unico limite visivo: l’intera impostazione del lungometraggio prevede una costante e forzata tensione all’inquadratura sovraesposta e decentrata, in una profusione di fuori fuoco, diaframmi aperti al massimo e primi piani evanescenti che risultano ben più efficaci scritti in sceneggiatura piuttosto che visti sul grande schermo.
È curioso come un film votato, seppur semplicisticamente, allo smascheramento di una società ossessionata dal controllo, riesca a rivelarsi geometrico, vuoto e stantio esattamente come ciò che vuole denunciare. Equals, nella reiterazione di un genere cinematografico incapace di sfruttare la fantascienza per parlare davvero alla testa e al cuore, si dimostra come il clone debole della seconda puntata di Black Mirror, diviso fra maxischermi, computer futuristici e freddezza imposta attraverso un altoparlante. Onestamente, nonostante la sincerità della storia d’amore, ne avremmo fatto volentieri a meno.
Marco Romagna