ENJO – CONFLAGRATION (1958), di Kon Ichikawa

L’interrogatorio, l’incrocio di sguardi fra le domande incalzanti della polizia che vuole far luce sulla vicenda ed il mutismo ostinato del protagonista, Goichi Mizoguchi. L’imbarazzo, la sanità mentale che sembra vacillare. Il Giappone ancora scosso dalla guerra, la sua gioventù destinata a soffrire. Il posto più bello del mondo, i monaci, le geishe e le Chesterfield.
Il Festival di Berlino, nella mini-retrospettiva dedicata dalla sezione Forum al nipponico Kon Ichikawa, porta sugli schermi teutonici il restauro di Enjo – Conflagration (1958).

Yukio Mishima pubblica nel ’56 Il padiglione d’oro (edito anche con il titolo Il tempio del padiglione d’oro), romanzo nel quale parte da un reale caso di cronaca che aveva profondamente colpito il Giappone tutto. Il tempio Shukaku di Kyoto, distrutto il 2 luglio 1950 dall’incendio doloso appiccato da un monaco novizio, è punto di partenza per giungere ad una finzione letteraria che si erge a parabola, esempio allegorico delle profonde contraddizioni di un ormai ex Sol Levante in rapida ed inevitabile evoluzione. Un Giappone forzosamente occidentalizzato -con grande dolore dello scrittore, patriottico e tradizionalista- dalle allora recenti esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Il padiglione d’oro è un libro sentito, sofferto, scritto rigorosamente in prima persona, dal quale emerge l’ossessione compulsiva del protagonista nei confronti della bellezza, ma anche la spirale decadente ed autodistruttiva che ha sempre permeato le opere e la vita, fino al noto suicidio, dello scrittore nipponico.

Due anni dopo, nel ’58, Kon Ichikawa lavora alla trasposizione cinematografica del romanzo. La schiettezza letteraria della prima persona singolare è sostituita da una straziante rilettura del difficile rapporto con la madre, causa principale dei disturbi di Goichi, inserita nel contesto di un linguaggio cinematografico ancora oggi sorprendente per modernità. Il regista gioca sapientemente con il tempo e con il montaggio, inserendo la narrazione in un (quantomeno per quegli anni) complesso quanto efficace sistema circolare. La sequenza iniziale anticipa il finale, introducendo il fondamentale concetto mishimiano di “figlio della guerra”, mentre quasi l’intero film è un flashback da cui all’occorrenza partono ulteriori analessi, introdotte da sublimi dissolvenze parziali.
Le lente panoramiche, la cura nell’inquadrare i dettagli, i cambi di fuoco. Le gambe della madre e poi dello zio intravviste al di là di una porta, la pira del padre e la paglia che brucia Shukaku: autentiche perle di eleganza, disseminate con disinvoltura nelle pieghe della trama.

Un monaco novizio affetto da balbuzie, lo splendido rapporto con il padre, monaco anch’egli, da poco trapassato. La madre fedifraga, soffocante, negativa. L’ossessione per Shukaku, secondo il padre il posto più bello del mondo per via della sua immutabilità. Tayama Dosen, superiore del tempio, che lo accoglie come un figlio, gli paga gli studi, poi lo delude. L’incontro con Kashiwagi, compagno di università cinico e storpio, la sua capacità di sedurre le donne, le sue parabole fra lo zen e il nichilismo. La lenta metamorfosi di Goichi, parallela alla perdita di costumi del mondo intorno, l’emergere inesorabile dell’insanità mentale. Le due stecche di sigarette per un atto di crudeltà, poi il denaro. Dall’altra parte, il tempio che diventa una sorta di attrazione turistica a pagamento, Dosen che sale in auto con una geisha, il rapporto che si deteriora, la preclusione a diventare maestro. Le prostitute, il coltello e l’arsenico mai utilizzati. Poi, l’idea del doppio suicidio, dell’uomo e del tempio, le fiamme, la paura e la fuga.

La paura di un Giappone perso fra le tradizioni che si sgretolano e i vani tentativi di dissimulare i cambiamenti. Una vita di obblighi, drammi familiari, sofferenze sempre più gravi, delusioni, perdita della sanità fisica e mentale, forse del senso di giustizia, ma mai dell’orgoglio. Non manca l’ironia, a volte anche nera, né la capacità di sdrammatizzare, fino al tragico quanto inevitabile epilogo.
Conflagration è un film sulla necessità ineluttabile, un film sulla ricerca della bellezza – umana, geografica e spirituale -, un film sulla sua caducità. Un film sull’invidia.
Un film che va visto.


Marco Romagna