ENAMORADA (1946), di Emilio Fernández
La presenza di Martin Scorsese al Festival del Cinema Ritrovato quest’anno ha avuto il grande pregio di mettere molte persone in moto verso un evento che nella quotidianità di molti potrebbe essere impensabile: la proiezione di un film messicano degli anni ’40. Il regista italoamericano ha presenziato in Piazza Maggiore per presentare Enamorada, esaltandolo come una specie di Quarto Potere della scena cinematografica centramericana, in una nuova versione restaurata digitalmente in 4k dalla UCLA e da World Film Project con l’appoggio della Material World Foundation della moglie di George Harrison. Il volto senile ma mai severo del cineasta dietro Taxi Driver, L’età dell’innocenza e Silence si è rivelato già, per certi versi e forse involontariamente, uno specchio dello status del film che ha presentato: un intoccabile e rigido simulacro di qualcosa che è cambiato, cambia e cambierà nella percezione degli altri, con i valori tradizionali del cinema classico ma anche con lo sguardo puntato al futuro. Enamorada nasce da un regista che è più noto come simbolo che come autore: attore in più film di Sam Peckinpah e profondamente influenzato dalle esperienze cinematografiche di Eizenstejn in Messico, Emilio Fernández ha partecipato attivamente alla rivoluzione messicana insorgendo contro il governo di Álvaro Obregón, uccidendo un uomo e finendo in prigione. Dopo essere evaso, si è imposto un esilio ed è approdato negli Stati Uniti, a Los Angeles, dove ha deciso di dedicarsi al cinema, iniziando una ricca carriera nel 1941 che ha avuto come apici Maria Candelaria (Palma d’Oro a Cannes 1943), La Perla (Leone d’Oro a Venezia 1945) e, appunto, Enamorada. In tutto ha girato quasi 130 film e nel periodo passato in California posò come modello per la statuetta degli Oscar.
Enamorada costituisce un’operazione cinematografica forse incompleta o complessa per uno sguardo europeo. È un film dallo stampo e dalla struttura americanizzati, ma con una serie di cambi di registro brutali e di sistematiche discussioni morali complesse che rendono lo scheletro concettuale dell’opera un pot-pourri politematico, sempre a metà tra l’esotico e il canonico. Tratto vagamente dalla Bisbetica domata shakespeariana, e ispirato esteticamente al cinema di Josif Von Sternberg, Enamorada è la storia di un rivoluzionario di nome José che irrompe in un paesino messicano chiamato Cholula per soverchiare la superficie oligarchica della società borghese locale. Ivi abita un suo compagno del passato, divenuto prete, di nome Rafael, che tenta, spesso invano, di indirizzare José più verso i propri sentimenti più puri invece che verso gli impulsi sessuali e violenti che spesso lo stimolano, in particolare quando si tratta dell’irrazionale innamoramento per la scorbutica e altezzosa Beatriz. José è ‘enamorado’, ma riuscirà mai lei a essere a sua volta ‘enamorada’? Il processo mentale a cui José costringe la sua amata è simile a quello che si svolge autonomamente nel cervello e nello sguardo di Ingrid Bergman a partire dal controcampo sul degrado di fronte a lei in Europa ’51: attraverso il proprio amore, così irriflessivo e precipitoso da causare un’alienazione totale nel rapporto tra i due, José le insegna a guardare il mondo con altri occhi, con una profondità di sguardo spiritualmente compiuta e politicamente stimolante. La rivoluzione rimane un atto d’amore, anche in un cinema d’impostazione assolutamente classica – anche se forse pure quest’impostazione andrebbe messa in discussione, e riguardo a ciò basti considerare la mutevolezza camaleontica della struttura della sceneggiatura, che spesso finisce per confondere i tre protagonisti in un turbinio di ripetizioni cicliche. Innanzitutto, è un film sulla rivoluzione che non mostra la rivoluzione, se non attraverso due brevi sequenze quasi western, una come prologo (realistica ed esplosiva) e una come epilogo (favolistica, futuristica, guerrafondaia con un patriottismo pomposo che sembra anticipare per contrapposizione il finale di Va’ e vedi (1985) di Klimov); dopo questo breve interludio, il film si sposta sulla presentazione di José, dei suoi compañeros soldati e dei suoi nemici politici, in un lungo e teso confronto in cui lo spettatore conosce tutte le caratteristiche del suo antieroe socialista, dalla magnanimità che riserva agli umili fino alla brutalità con cui liquida i viscidi e i vigliacchi.
Aggirando lo spazio dello scantinato in cui si attua il confronto con una fluidità nella corrispondenza tra le immagini che fa paura per come funziona nonostante qualche stacco raffazzonato, Fernández trasforma José nel corpo-prosopopea di una guerra ancora informe, che solo attraverso il sentimento dell’amore/rivoluzione può evolversi in qualcos’altro. Questo qualcos’altro è un cambio di registro, di genere cinematografico: si passa dalla tensione bellica ai dogmi narrativi della screwball-comedy à la Hawks di Susanna! da quando José scopre per la prima volta l’amore in poi, forse un amore indirizzato verso la persona sbagliata. Si susseguono vari momenti di vera e propria commedia slapstick tra i due, ma non senza momenti di violenza esplicita che sformano il tono della scena (lui che sputa sangue, lei che piange). Nel frattempo entrambi i personaggi si rapportano a Rafael, e attraverso lui e la Chiesa portano il film ad acquisire una seconda dimensione, in cui la rivoluzione e Dio si trovano in sincronia, il dolore di Cristo è quello del popolo messicano ed è solo attraverso la consapevolezza di ciò che si può giungere a un cambiamento. Beatriz trova l’amore solo attraverso la consapevolezza del fatto che il dolore del Messico deve essere messo “alla luce” (attraverso l’allegoria di un quadro coi Re Magi che viene spostato da un angolo buio a una parete illuminata), denunciato, distrutto e risanato, che «tutto è grazia» ma che, perché sia così, qualcosa deve distruggersi. Le parole di José sono di un romanticismo incredibile, e ciò è sottolineato anche dalla canzone Malagueña Salerosa, ormai divenuta celebre ma registrata per la prima volta proprio per questo film; a contrapporsi al suo sentimentalismo sincero quanto ossessivo, c’è la struttura geometrica opprimente e grottesca dell’architettura ecclesiastica, che accerchia il rivoluzionario ipnotizzandolo con le note suadenti dell’Ave Maria e quasi accecandolo con una bellezza però troppo lontana dalla sua sensibilità o dal suo raziocinio.
Enamorada è un film a cui non ci sentiamo di attribuire la parola ‘capolavoro’, di cui spesso tutti abusano (noi inclusi…), ma se è così è principalmente perché da un punto di vista strettamente etnico e culturale il cinema messicano è un mondo per noi complesso, lontano. Il fascino che il film è riuscito a suscitare nelle centinaia di spettatori che si trovavano in Piazza Maggiore, dei quali probabilmente la stragrande maggioranza (noi inclusi, ancora una volta…) non aveva mai sentito nominare, è tuttavia innegabile: le immagini di Fernández con la splendida fotografia di Gabriel Figueroa (allievo di Gregg Toland) hanno stregato, ammaliato, divertito e commosso un pubblico ‘world’ con un cinema ‘world’, mostrando un passato altrimenti invalicabile che non può che essere perfetto per re-immergerci nell’atmosfera del Festival del Cinema Ritrovato.
Nicola Settis