EN KVINNAS ANSIKTE / A WOMAN’S FACE (1938), di Gustaf Molander
Nell’ambito della retrospettiva dedicata dal Cinema Ritrovato a Ingrid Bergman in occasione del centenario della nascita dell’attrice svedese, trova la luce degli schermi bolognesi una splendida copia in 35mm di A Woman’s Face, a firma Gustav Molander. Tratto da una pièce di Croisset, originale del Volto di Donna di George Cukor (1941) con una divina Joan Crawford nel ruolo che fu della Bergman, En Kvinnas Ansikte è un romanzo di formazione alla ricerca dell’umanità perduta che non dimentica il sano piacere di raccontare.
Partendo da quell’estetica narrativa europea che tanto sarà fonte di ispirazione, qualche anno dopo, per la nascita del genere noir, il film si apre su un’associazione a delinquere di ricattatori, pronti a rubare lettere d’amore infedele per restituirle sotto lauto compenso. Sono guidati da Anna, sfigurata e crudele, incapace di provare sentimenti, indurita da una vita difficile ed invidiosa della bellezza altrui. Dopo l’incontro-scontro con un dottore, la giovane sarà operata al volto e recupererà la bellezza perduta, come inizio di una metamorfosi, anche sentimentale e comportamentale, da mostro a donna.
La metafora su cui si basa il film è semplice, ormai abusata e forse riduttiva, ma assolutamente contestualizzata e valida nella Svezia del ’38. La bellezza come bontà, la tenerezza di un bambino come ponte verso la redenzione, l’amore come soluzione per il male: il Cinema classico. Ed En Kvinnas Ansikte, da buon classico, scorre, avvince, fa sussultare ed esultare. Anche nel finale, nonostante gli ultimi minuti un po’ tirati per le lunghe e non esenti da retorica, con il film appesantito da una serie di spiegazioni sociofilosofiche sui comportamenti legati ai casi della vita, A Woman’s Face riesce a non perdere vitalità, mantenendo intatta l’empatia dello spettatore con il personaggio della bellissima Bergman.
Ad impreziosire la pellicola, la cura dei dettagli, la ricerca della profondità di campo, un montaggio capace di cambiare ritmo ed emozioni. La sequenza in cui vengono tolte le bende dopo l’operazione, in particolare, mostra una cura maniacale nella costruzione dell’immagine, con il volto di Ingrid al contempo mostrato e celato, la tensione che sale, l’attesa spasmodica, qualche porzione di viso e poi, sul più bello, il controcampo a negare la visione.
Certo, Molander non era Cukor, e la differenza si palesa tornando con la mente alla proiezione locarnese, nel 2013, del Volto di Donna americano. Il regista newyorkese, solo tre anni dopo, ha saputo impreziosire lo stesso soggetto con una serie di finezze sofisticate, a livello di trama e concettuali, che vanno a sostituire tutti quelli che sono i (comunque perdonabili) difetti della versione svedese. La differenza più importante? Il film di Cukor si apre nell’aula di un tribunale, nella quale l’imputata Anna racconta, con una serie di flashback, la sua storia. Cambiano i suoi amori, l’epilogo diventa molto più drammatico, si evitano gli intenti filosofici: quello che nel ’38 era un bel film, nel 1941 diventa quasi un miracolo, come una sorta di ponte, nella storia del Cinema, fra il Fritz Lang di M e il Billy Wilder di Sunset Blvd. Ma questa è un’altra storia, che non deve certo fare sottostimare la già buonissima versione svedese.
Marco Romagna