Vero, non vero. Passato in concorso a Cannes 2018, En guerre di Stéphane Brizé è un film al quale difficilmente si può resistere. Le ragioni sono molteplici: in primo luogo il coraggio di riportare in vita, in un contesto produttivo decisamente ricco, un cinema militante che rimette al centro parole d’ordine quasi passate nell’antiquariato. Lotta collettiva, l’interesse comune che riguarda tutti, serrare i ranghi davanti all’egoismo dei soliti, avere la forza di disciogliere la propria individualità e mettere in circolo la propria singola capacità di incidere sul reale. A nostra memoria, in anni recenti il sindacalismo ha trovato rarissime occasioni di tradursi in una rilettura così piena e appassionata in ambito cinematografico. Film da amare: anche per il linguaggio, che si affida quasi esclusivamente a lunghi confronti dialogici, srotolati in lunghi e appassionanti piani-sequenza, dove c’è spazio solo per il confronto politico. Dove per politico s’intende occuparsi di un bene comune tramite un intenso conflitto di posizionamenti, strategie, risorse dialettiche, una partita a scacchi giocata alla ricerca del punto debole dell’altro. Al di là del suo conclamato afflato militante, En guerre si profila anche come uno studio colto in fieri sulla parola, sul suo uso istintivo o calcolato, o fintamente istintivo che nasconde in realtà una scaltra disposizione all’affabulazione. Con l’eccezione di Vincent Lindon (prova strepitosa la sua, meritevole di un premio al miglior attore), gli altri sono tutti attori non professionisti, che conservano anche il proprio vero nome nel racconto probabilmente per facilitare, al momento delle riprese, l’immersione nella situazione drammatica. Vero, non vero. Nei dialoghi infiniti e coinvolgenti, che sostanzialmente ruotano intorno sempre ai soliti contenuti, la “percezione di realtà” resta altissima. Credibile il linguaggio, credibili le dinamiche di confronto sul tavolo delle trattative, credibile soprattutto il conflitto tra varie incarnazioni di formularità. L’unico a non formulare mai, parrebbe, è il Laurent protagonista, delegato sindacale, che alla parola preformata predilige l’istinto. Tutt’al più, è proprio nel suo personaggio che si può percepire un surplus di drammatizzazione, soprattutto in funzione dei suoi costanti sovratoni. E il suo istinto è talmente ben gestito da collocarsi in un intrigante territorio ambiguo tra spontaneo e preordinato: essere così bravi nell’interpretare il proprio ruolo sociale da essere al contempo “veri” e preparati. Istinto spontaneo al dibattito che trova le forme giuste, in una sorta di continuo training ricavato semplicemente dalla vita e dall’esperienza.
Narrando di una consueta delocalizzazione industriale che mette a rischio la chiusura di una fabbrica francese facente capo a una multinazionale, Brizé cerca in una simulata condizione di “qui-e-ora” una sorta di summa paradigmatica per quel che sta accadendo non solo in Francia, ma in buona parte del mondo occidentale. Cinema platealmente furibondo e militante, che riesce pure a evitare le sabbie mobili del populismo – dietro a una lotta ragionata e condotta con squisiti strumenti dialettici non può mai esserci populismo. Quindi tutto bene, il film è assolutamente convincente e meritevole di premi. Possiamo rilevare giusto un paio di sbavature nel bisogno, assolutamente pleonastico, di dare un quadro privato a questo lottatore indefesso, aprendo qua e là parentesi sulla sua famiglia decisamente stonate. Certo, per un racconto così serrato e appassionante è forse “economicamente” necessaria qualche pausa per non rischiare di soffocare e perdere lo spettatore. Tuttavia, ecco, se tali parentesi private nascono per lo più su questo evidente scopo, viene da pensare che Brizé risolva il problema del “tirare il fiato” nei modi più banali e scontati. Tuttavia, vi è forse un altro elemento che mette in crisi le categorie interpretative del film: il fatto cioè che la vicenda si concluda con il gesto plateale, drammatico e disperato, da parte di Laurent, e tale gesto enorme e definitivo vuole rendersi funzionale a un’ulteriore riflessione su oliati meccanismi di botta-e-risposta che non possono permettersi di restare indifferenti di fronte a conclamate tragedie. Si riapre il tavolo, insomma, ma perché anche il confronto politico non può più esimersi ormai dal tenere conto del proprio lato immediatamente pubblico, ossia della propria spettacolarizzazione. Restare indifferenti davanti a gesti eclatanti di tale portata significherebbe “perdere la faccia”. Per cui tutto si traduce in economia, pure la dignità. In tal senso Brizé coglie un’intelligente occasione per mettere sotto la lente dell’analisi anche il processo di “spettacolo globale” incontro al quale tutto l’esistente (realtà industriali comprese) sembra andare a larghe falcate ormai da decenni.
Tuttavia, per quanto ricostruita con approccio narrativo sì finzionale, ma “più vero del vero”, la vicenda di En guerre non s’ispira a una precisa storia realmente accaduta, e un vero Laurent non è mai esistito. Ne sono esistiti magari a decine con altro nome, così come sono avvenute in ogni dove vicende industriali in tutto simili a quella che Brizé racconta trasformando il suo film in paradigma di una situazione universale. Ma chiudere En guerre con quel gesto enorme e tragico (che pure nella realtà è avvenuto purtroppo in più occasioni) rende un po’ ambigua tutta l’operazione. Rischia anzi di aderire a un imprevisto eccesso melodrammatico in chiusura dove la martirizzazione e santificazione dell’eroe fanno vacillare l’asciuttezza dialettica dell’opera. In questi tempi difficili non vi è bisogno di martiri, né reali né finzionali; semmai vi è bisogno di tanti Laurent come vediamo in tutto il film fino alla sua conclusione, accalorati nel portare avanti le proprie idee, sospinti da profonda motivazione e fiducia. E vi è ancora più bisogno di tanti anonimi sostenitori, quelli che si dispongono intorno a Laurent confondendo i propri volti, giungendo a definirsi come individui solo in due o tre casi. Una massa rumorosa e credibile, mai gratuita, sempre ben consapevole del proprio potenziale peso specifico nell’orizzonte della realtà. Fatta la tara a questi dubbi da cinefili impazziti, si sente comunque un gran bisogno di film come En guerre. È da festeggiare la riapparizione di un cinema che ha voglia di sporcarsi con la realtà sull’onda di una sincera partecipazione. Sapientemente costruito, capace di parlare a un ampio pubblico innescando meccanismi di identificazione né edulcorati né a buon mercato, En guerre non cede un centimetro alla corrività di linguaggio. Sfida lo spettatore adottando una grammatica complessa eppure del tutto accessibile. Rispetta il pubblico evitando semplificazioni. Per cui, se tra un paio di giorni Brizé dovesse andarsene con la Palma d’Oro, gran poco si potrebbe obiettare.
Massimiliano Schiavoni