Partiamo dal presupposto che l’arte visiva è l’arte della contemporaneità, l’arte del “giorno d’oggi”, l’espressione massima del presente. Partiamo dal presupposto che è il mezzo d’espressione artistica più facile da raggiungere e più complesso da rendere virtuosisticamente. Partiamo dal presupposto che la fantascienza è l’arte della manifestazione del presente attraverso il futuro, e che il futuro quando lo leggiamo nei libri di Asimov, degli Strugatskij e di Dick è nella nostra immaginazione mentre quando lo vediamo nei film di Ridley Scott, Cameron e Spielberg, il futuro lo vediamo com’è immaginato dagli altri, ne vediamo davvero i colori, pur sottratti dall’inconscio e dalla capacità di visione dell’altro. Dunque: il cinema manifesta in immagini il futuro, tramutandolo in un qualcosa che esperiamo e percepiamo con lo sguardo (lo sguardo in avanti, verso lo schermo, che diventa lo sguardo verso il futuro), mentre su carta noi finiamo per guardare noi stessi e come noi possiamo immaginare l’immagine di quello che leggiamo. Da questo punto di vista, il cinema è passato, presente e futuro, è l’arte della manifestazione novecentesca della magia, è l’arte della narrazione del contemporaneo, è l’arte del moderno, postmoderno, post-postmoderno (o “ghostmoderno”, direbbe una certa giovane musicista hippie contemporanea) e del futuro/futuribile. Ma soprattutto, il cinema è l’arte dell’immagine e, come ogni arte, della memoria. Tutta questa pappardella per giungere dove? Ad un mondo futuro in cui dilaga un’infezione che porta (apparentemente) tutti a problemi di perdita di memoria a breve termine, un mondo in cui si delineano varie storie tutte incentrate sulla malattia ma in diverse declinazioni, ognuna legata ad uno sguardo diverso. Embers di Claire Carré è un’interessantissima opera prima (e la Carré pare già un’autrice a tutto tondo, che dirige, scrive, monta, si auto-produce e disegna i costumi), un film denso di fantascienza che a molti ha ricordato la serie TV Black Mirror e la sua aspra e crudele critica sociale, ma per noi è più vicino all’ultimo, grandissimo film di Aleksei German Jr., ovvero Under Electric Clouds. Nelle varie storie che si incrociano in Embers abbiamo ritrovato lo stesso senso poetico, lo stesso approccio privo di morale alla materia di discussione, e anche lo stesso metacinema gelido e pessimista – pur essendo un film ben più modesto.
Le storie di Embers girano attorno ad una serie di personaggi: un ragazzo e una ragazza seriamente infetti che ogni giorno si dimenticano tutto della loro vita ma che comunque riescono sempre a ritrovarsi e a ricordarsi di stare insieme, avendo lo stesso braccialetto; uno scienziato che studia l’infezione e cerca di risolvere la malattia ma ha problemi di memoria durante le proprie ricerche; un ragazzo di nome Caos che, non spaventato dalle conseguenze delle proprie azioni (tanto se ne dimentica…), ruba, uccide, stupra, fa casino; un bambino androgino muto che passa da una casa all’altra e da un tutore all’altro, incontrando prima un vecchio, poi Caos, poi una specie di Marina Joyce che si ciba solamente di psicofarmaci e in conclusione lo scienziato; e Miranda, una ragazza spagnola che abita in un bunker col ricco padre collezionista d’arte, costantemente sottoposta a test sulla memoria, bloccata sotto terra da 9 anni ad ascoltare musica, allenarsi con il violoncello, riguardare con nostalgia le foto della madre abbandonata nel mondo esterno. Sembra quasi di assistere a vari film di generi diversi, tutti traslati nel contesto della fantapolitica più suggestiva e triste: la storia d’amore, il film biografico di divulgazione scientifica, il film nichilista, il grottesco koriniano e, infine, sì, la puntata di Black Mirror, la distopia televisiva. È come se ci si stesse trovando di fronte ad un dialogo continuo tra questi mondi, tra queste manifestazioni di simboli cinematografici del cinema contemporaneo. La costante nelle varie storie è il recupero e la necessità della meraviglia: la storia d’amore si risveglia grazie alla bellezza delle luci attraverso i vetri della cattedrale, lo scienziato ritrova sé stesso nella natura, Caos smette di inseguire una ragazza che vuole stuprare quando si imbatte in un cavallo bianco, il bambino imparando ad andare in bici impara a vivere e Miranda cerca l’umanità e la trova nella fuga: una specie di soluzione “sveviana” al dramma, in cui Miranda accetta che tutti gli esseri umani sono malati, e tanto vale immergersi nella malattia pur di essere davvero umani. Come film distopico dunque è anche relativamente ottimista, perché in questo mondo disperato e smemorato c’è la grandissima speranza della meraviglia umana. Alla fine anche l’antagonista, Caos, non è un antagonista ma solo una manifestazione di un’altra maniera di esprimere lo sconforto: una maniera insomma con cui la Carré (forse) attacca il cinema nichilista che è spesso troppo crudelmente presente nel panorama contemporaneo. Caos uccide e stupra, poi è stuprato e tenta il suicidio ma si dimentica il proprio scopo e ricomincia a creare confusione e disordine: del resto, Caos ha il volto di Karl Glusman, attore che abbiamo visto in Love di Noé e in The Neon Demon di Refn, quindi già simbolo di un cinema crudele, violento, pessimista, adatto al pubblico di nicchia – e esempio davvero virtuoso di attore non professionista. Un pubblico suicida e triste, che trova il proprio compimento nell’autodistruzione. Verso questi personaggi non c’è alcun moralismo, vi è solo un freddo commento sulla (paradossale) “realtà allegorica” dei fatti, creando un ritratto dal quale in realtà traspare solo la natura vittimistica degli individui di questa società. Da questo punto di vista, ci troviamo davvero di fronte a una visione a tutto tondo di un mondo che è solo e soltanto vittima inconsapevole di sé stesso: non si trattano di semplici uomini desensibilizzati dalla tecnologia (come può trasparire a volte dai prodotti fantascientifico-distopici odierni), si tratta di esseri umani alla ricerca della propria umanità in uno scenario in cui la si perde per forza di cose; la società-nemico è invisibile, e nessuno sembra dover avere una colpa.
Da questo punto di vista è importante la scenografia di buona parte del film: uno spazio indefinito, quasi come se venisse dato per scontato, in una città anonima che si vede solo in parte, come “cornice” a volti e corpi, uno spazio fatto tanto da normali edifici e strade, quanto da posti lasciati all’assoluto abbandono – e non mi stupirei se la Carré dicesse che quelli sono veri posti immersi nello sfacelo trovati a giro per il mondo (co-produzione polacca e statunitense). E poi, il bunker, elegante e perfetto ma triste, imborghesito, cadaverico, soltanto tecnologico, disumano eccetto per le figure che si muovono all’interno dell’inquadratura in maniera posata e artificiale. Alla fine, sono necessarie due vie di fuga dall’assurdo per vivere al meglio la carenza di umanità di questo mondo: l’amore e la bellezza, che spesso convivono nello stesso istante, nello stesso riconoscimento, nello stesso specchiarsi attraverso l’altro per vedere sé stesso, nel rivedere al polso dell’altro il proprio braccialetto e quindi nel ricordarsi grandi amori, con un finale agrodolce e beckettiano sospeso assurdamente a metà tra Memento e Luci della città. E la sensazione di trovarsi di fronte ad un film probabilmente davvero auto-prodotto e indipendente, nonostante un paio di scene con necessari effetti speciali ad alto costo, rende questo prodotto davvero affascinante. A uscire dalla sala ci si sente un po’ come Miranda, che alla fine davvero scappa da sé stessa per andare verso l’umanità, per scappare dalla chiusura del bunker/sala cinematografica verso qualcosa di vero, sincero e difettoso: la realtà, che prima o poi ci scorderemo tutti.
Nicola Settis