ELLE (2016), di Paul Verhoeven
Torna dopo dieci anni alla regia Paul Verhoeven, per la seconda volta in concorso a Cannes dopo quella con Basic Instinct, con il personalissimo addattamento della novella “Oh…” di Philippe Djian, torna e subito impressiona, facendo anche discutere molti. Si parte dal buio e dal nero, mentre l’audio ci porta allo stupro di Michelle (una splendida Isabelle Huppert). Passiamo un attimo per lo sguardo del gatto vuoto/vitreo, poi il campo si apre, si vede lei violentata da un uomo mascherato, e noi spettatori lì, inutili e complici come il micio. Michelle possiede una società di videogiochi, ludoteca vivente in cui spesso la sfera dell’esposizione sessuale e del potere è un aspetto fondamentale: già così Verhoeven ci sfida a pensare alla passività nei media, nel modo in cui Michelle affronta la sua violenza subita. Stupisce infatti la sua prima reazione, non denuncia nulla, pare volontariamente rimuovere l’accaduto, per elaborarlo personalmente, sedimentarlo e ricostruirlo. Lei sta cercando nel buio, sia intorno a lei sia dentro di sé, in una ricerca che si fa sempre più misteriosa e rischiosa. Allo stesso modo le persone che si muovono attorno a lei definiscono un panorama in cui gli uomini si ubriacano, uccidono, stuprano, si accoppiano, riconoscono figli che non sono i loro, scappano, gemono, muoiono. Trenta giorni di una vita inesorabile dove le memorie, il sesso e la morte possono causare cortocircuiti in ogni momento, e Michelle rimane lì, quasi ormai a osservare il passato, dopo che l’azione per troppo tempo si è mossa proprio attraverso lei.
Già dall’apertura Elle pare una passeggiata sul filo del rasoio, una deriva continua di sguardi e sensazioni che provocano una meraviglia emozionante e sbalorditiva, quasi impossibile da identificare ma che si srotola con il vivificarsi della narrazione. Verhoeven ritorna al suo cinema del limite, pericoloso e stimolante, terribilmente sensuale, sorprendentemente audace nella sua originale funzionalità. Mai banale, perennemente discontinuo e a tratti sfrontato, che affascina e abbaglia. L’indagine che pare essere il filo conduttore più profondo è quella della donna di potere, che sempre più faticosamente (nonostante la sua straordinaria sicurezza di facciata) lo riesce a esercitare sia in ambito familiare che in quello professionale. Sullo sfondo sempre quella notte, che mai riuscirà a dimenticare ma che allo stesso modo potrebbe seriamente diventare il suo principale motivo di rivendicazione delle ferite che metaforicamente si (ri)presentano nella vita. Tutte le azioni di Michelle così sembrano corrisposte da un senso di necessario ed inevitabile, come tendenti a un fine spesso oscuro, o forse che nemmeno lei riesce pienamente a intuire. Tutto questo, a tratti, pare quasi designato da un inconscio provvisoriamente inconsapevole e non sempre sotto controllo.
Se dal titolo (Elle, lei) il film potrebbe apparire la ricostruzione di un quadro, l’esigenza di raccontare un’esperienza di vita qualsiasi nel particolare, il ritratto che ne viene fuori assume le forme di un’analisi frammentaria ma estremamente logica dell’alta borghesia di un Europa che forse non c’è più, o che oramai spicca solo per la sua decadenza. Fondamentale è appunto l’Huppert, e la sua personalità, proprio per personificare questa figura estremamente metaforica che la regia vorticosa di Verhoeven definisce sempre all’interno dell’inquadratura e motore unico (e spesso fine) dell’azione. A questo punto pare forse che l’esperimento del grande autore olandese non fosse altro che verificare quanto lei potesse cambiare in conseguenza dello stupro, soprattutto in relazione con la società che le appart(i)ene(va). Forse siamo solo noi a guardarla con nuovi occhi, perché in fondo ciò che continua a muoverla, forse anche ossessivamente, è la difesa dei suoi privilegi, l’autoaffermazione doverosa dei propri principi/progetti, e la spregiudicatezza della donna che non deve chiedere mai. Allo stesso tempo, mentre la sua vita sociale va solidificandosi sempre più, il suo doppio (o triplo?) gioco la porta non solo a individuare il proprio stupratore, ma addirittura a coinvolgerlo in un misterioso gioco d’affari, mostrando una volta di più l’ipocrisia e l’inadeguatezza di quello spaccato. Proprio in questo slittamento continuo di registri e personaggi, il lavoro di Verhoeven si fa splendido e complesso, definendo un thriller noir dalle fantasie segrete, con tratti dell’assurdo ed una forte componente di analisi. Non un capolavoro probabilmente, ma un film vivo ed originale di chi sa/vuole ancora cesellare cinema.
Erik Negro