ELES TRASPORTAN A MORTE (2021), di Helena Girón e Samuel M. Delgado
Approdano al Lido, rispettivamente dalla Galizia e dalle Canarie, Helena Giròn e Samuel M. Delgado, che concorrono nella trentaseiesima Settimana Internazionale della Critica con il loro lungometraggio d’esordio. Oceano Atlantico, il prologo dice 1492: è quello specifico anno, di quello specifico XV secolo di scoperte, che fu portatore di qualcosa, c’è chi la chiama civiltà e chi morte, il cui stendardo apre il film. Un semplice pezzo di tela che porta una croce stampata si attorciglia attorno a un paio di gambe che nuotano agitate, in un’acqua avversa all’uomo quanto al suo manufatto, che immerso nel mare si svuota della forza che sopra la sua superficie lo rendeva maestoso, ossia quella del vento che gli dona un ruolo. Tre corpi che si dimenano alla ricerca di una fuga nell’acqua, oltre l’acqua, come il protagonista de L’Atalante di Vigo.
Il bottino portato via furtivamente dai protagonisti è la vela di una caravella di Colombo. A compiere il taccheggio sono Bartolomé, Xoan e Telmo, visibili infine dopo la comparsa del titolo che si erge nel nero e suggerisce il sapore che si ritroverà in tutto il resto del film: «essi trasportano morte». La loro, e la morte della civiltà. Un senso di inquietudine, che è spirituale perché profondamente legato all dramma enigmatico della permanenza nel materiale, subentra di fronte alle navi ferme in lontananza. È una sequenza insonorizzata se non per il suono delle onde e dei fischi del vento, di fatto è unico terreno sonoro a reggere la narrazione quando non si confonde con le pochissime parole scambiate o con la minimale colonna sonora di fisarmonica, violoncello e delle composizioni elettroacustiche. All’uomo basta poco per smarrirsi e in questo caso, quando «tutto il resto è andato perduto» e quando raggiunte a nuoto le Canarie i tre non vedono «altro che pietre», immediatamente vacilla la speranza di trovare del ciò che cercano. Non è un tesoro, non sono terre da colonizzare né nuove vette da raggiungere, ma molto semplicemente del legno secco con cui poter ricostruire il vascello della loro salvezza, del ritorno a casa, per evitare una fine ineluttabile. L’Odissea e la letterale nostalgia (nel senso di dolore verso il ritorno) di uomini che le colonne d’Ercole non le volevano superare e che preferiscono «viver come bruti» che seguire una «virtute e canoscenza» che, in questa critica politica che vuole restituire uno sguardo diverso dalla versione ufficiale di un evento storico che avrebbe cambiato le sorti del mondo, sono in realtà portatrici di brutalità: trasporteranno la morte. Quella che i tre erano riusciti a evitare a condizione di salpare verso una «terra sconosciuta dove nessuno vuole andare (…) verso la fine del mondo», o meglio verso la fine di un mondo che è quello delle Americhe, meta agognata da un equipaggio frettoloso che ora li insegue sottoforma di eco di voci in lontananza e di barlumi del fuoco delle torce che traballa nel buio. Il trio è in qualche modo una versione ladruncola e dissacrata dei Re Magi del Canto degli Uccelli di Serra, con cui in qualche modo condivide una suggestione di regia che rimane in attesa, che segue ciò che avviene e i personaggi con vicinanza assoluta da cui trapassa una fisicità sincera. Ma i due film sono anche accomunati dalla lontananza dai personaggi, resi elementi naturali tra i tanti, in un paesaggio che contiene l’eco delle opere più mitologiche pasoliniane (la B-story muta di Porcile, il finale di Teorema, i rituali di Medea) e che alternativamente viene oscurato dal buio, illuminato di rado solo dalla tenue luce della luna o squarciato dalle esplosioni della lava vulcanica che illumina i volti degli uomini come fuoco d’artificio. Per descriverlo sono perfettamente calzanti le parole di Sin Dios Ni Santa Maria (2015), il loro precedente corto: «Da terra a terra senza né Dio né Santa Maria (…) quando arrivammo lì l’oscurità era più nera del velluto, ma quando arrivammo nel luogo dove doveva esserci la danza la luce brillava come se fosse giorno». Ma le parole servono poco in un film come questo che invece si costruisce intorno alla corporeità della materia rappresentata, poco cambia che sia quella animata o inanimata, e che costruisce, a dispetto dei Re Magi dell’opera di Serra così lontani dalle rappresentazioni presepiali, una sorta di rimando iconografico ai personaggi secondari dei presepi. Cosi ci appaiono senza tempo e ancestrali le tre donne del secondo filone che il film segue. Rimaste nel “Vecchio Mondo” a continuare a vivere «su quelle montagne bagnate dall’Atlantico (…) in quel bosco, per molto tempo».
Sono forse sorelle, o forse coinvolte nella stessa “sorellanza”, in mezzo a un cammino per inseguire la salvezza; una delle due cercava la morte gettandosi da un dirupo, proprio mentre gli uomini osservavano l’eruzione, ed è ora presa in cura dall’altra. Le due vanno alla ricerca di una vecchia che possa guarire la ragazza, un tipo di donna che sarebbe stata considerata una strega secondo la visione della Spagna cattolica del secolo, e sarebbe stata perseguitata come poi accadde ai nativi del “Nuovo Mondo” (la stregoneria è un tema caro ai due registi e già affrontato nel cortometraggio succitato). Per raggiungerla, si inerpicano per i boschi scoscesi in mezzo ai rami taglienti uguali a quelli tra i quali i loro (?) uomini cercano un rifugio e cercano quel legno che è come oro. L’unico sostegno delle due è fatto da un mulo e una caciotta di formaggio rotonda, che non possono non ricordare il cavallo e le patate (le prime bollite e l’ultima cruda perché non c’è più acqua) che nel Cavallo di Torino avevano ritardato la morte certa: nel film di Tarr lo schermo non porta la morte al padre e alla figlia, li trattiene da essa per sempre, immortalandoli ovvero rendendoli immortali tramite l’immagine in movimento. La morte è evocata e sentita dalla sua inesorabile attesa. Cosa che in fondo è il vero potere del cinema. La camera insegue la corporeità e non nasconde i piedi insanguinati, le labbra secche e bianche, la pelle bruciata dal sole, i capelli spettinati e i peli neri sul corpo femminile, il biascicamento del cibo, ma anzi estetizza il tutto e diventa sufficiente a se stessa. Come nel capolavoro di Tarr, la regia supera la necessità di azione nel momento in cui scardina i confini del tempo, dilatato, contratto, inutile, fasullo e interminato, per non ricostruirli e rimanere puro spazio. Uno spazio confuso, nel contempo vasto e claustrofobico, paesaggistico e frammentario, in cui l’azione è di fatto il disfacimento della stessa, o meglio l’assistere a un disfacimento che è l’approdo ultimo di ogni cosa ma che si combatte lo stesso, con le proprie gambe, con i propri muscoli ancora contratti nel loro cammino verso la ricerca di qualcosa. Ciò anche quando «tutto è perduto», e l’apparente assenza di Dio lo fa bramare ancora più intensamente («Dio aiutami, aiutaci»): un desiderio in realtà dei propri pari terreni che nel buio talvolta appaiono come visioni, come un sogno pastello che accompagna il lamento notturno. «Dove siete?», «tornate indietro», la realtà inciampa su se stessa e rivela una convergenza tra due mondi. I personaggi si tengono in vita e dunque ritardano la morte, che sia vestendosi e masticando una patata cruda come nel film ungherese, o che sia, pulendosi, biascicando formaggio, resistendo al sole e alla sete, dunque diventando pure icone, puri istanti di resilienza.
La dimensione storica, che pur nell’invenzione di un evento probabilmente non accaduto – la testa di Cristoforo Colombo difficilmente fu mozzata come il film mostra e chi lo sa se qualcuno rubò una vela – ma contestualizzato in uno più ampio come quello che costituì il turning point geopolitico del mondo intero, è certamente importante nel film, e da questa scaturisce la riflessione politica. Come recita il voice over finale: «I castigliani estesero il loro dominio sulle Canarie sottomettendo gli abitanti di cui rimangono poche tracce, poi proseguirono verso l’altro Oceano, portando morte in una nuova terra. E lo chiamarono il “Nuovo Mondo”, mentre le donne che erano «restate a casa» iniziarono a parlare «con gli alberi, le stelle e gli animali» e «quando gli uomini tornarono non le riconobbero e le condannarono per stregoneria». Ma è anche vero che questa vicenda a cielo aperto supera la dimensione storica del tempo perduto in cui l’evento resta sospeso e assume un ruolo per così dire “museale”, poiché permette per così dire una visione più grande, una continuazione di un’osservazione della vita dell’uomo dalla notte dei tempi. Che è fatta di fatica e di piedi stanchi e di rialzarsi per rimanere quanto si può ancorati a questi dirupi inospitali e ingannare la morte, prendere in giro la Storia. Un valore museale che è confermato delle immagini finali, reperti archeologici che ricordano i filmati d’archivio (come quelli speleologici di Montañas Ardientes Que Vomitan Fuego, cortometraggio Giròn e Delgado del 2016) e che ritornano sugli stessi luoghi finora protagonisti e che infine appaiono lontani e passati al pubblico di questa proiezione del 2021, illuso di essere presente ma in realtà già storia per quelli di domani. Vengono mostrate incisioni rupestri, scheletri, forse gli stessi dei personaggi seguiti finora. Forse quello della ragazza che infine la morte ha raggiunto o che meglio ha raggiunto la morte, di cui resta il corpo bruciato tra le fronde della terra, quella in cui rimangono «i nostri amanti defunti, i nostri amici, i nostri cari che ci siamo lasciati indietro» e che si spera germoglieranno di nuovo in questa «terra dolorosa» che misuriamo e che custodisce al suo interno dei segreti, dei misteri. Dunque oltre ad essere un film che rimette in discussione il momento fondante della cosiddetta modernità, oltre ad essere un’ode ai diseredati, Eles transportano a morte è un’opera sulla fratellanza, sul lutto e sulla memoria.
Per quanto saldamente ancorati alla materialità, Giròn e Delgado trascendono il realismo indagando o meglio lasciando accadere quelle misteriose energie che sottendono la realtà e permeano il creato, il quale diventa così sublime nel senso più Sturm und Drang del termine. Così è d’altronde la loro regia: pericolosa, dolorosa ed eminente come un quadro di Friedrich.
Bianca Montanaro e Nicola Settis