C’era una volta la Pixar, verrebbe quasi da dire cedendo al pessimismo. Uno studio d’animazione computerizzata in grado per quasi trent’anni di far sognare gli spettatori di tutte le età, di trascinarli in un mondo di immaginazione e d’avventura, e nel frattempo di riflettere sulla vita e sulla morte, sulle emozioni e sui sentimenti, sull’umanità e sull’emarginazione. Una fucina di idee che pareva inesauribile come una fiaba, e che invece, dal 2018 delle dimissioni di John Lasseter e della sempre maggiore voce in capitolo della casa madre Disney, sembra progressivamente aver disperso il suo potenziale narrativo e immaginifico per adagiarsi sui canali di un intrattenimento ormai sempre più standardizzato, e quindi inevitabilmente pigro e impoverito, privo o quasi di picchi emotivi, non sempre ispirato e troppo spesso ripetitivo nel racconto e nei concetti espressi. Un problema che non nasce tanto dall’ossessione contemporanea della Casa del Topo per il politicamente corretto verso le tematiche più sensibili, caratteristica che di per sé non sarebbe affatto un problema, e che anzi – per lo meno fino a quando non sconfina nella retorica o nell’aperta ipocrisia volendo “correggere” capolavori del passato – porta sullo schermo problematiche più che legittime e istanze progressiste assolutamente condivisibili, quanto da come sembri ormai più interessata allo straight-to-video di Disney+ che alla distribuzione in sala, e quindi alla velocità di esecuzione di progetti in serie più che alla reale qualità e stratificazione dei singoli film. Basterebbe in tal senso prendere l’inaspettata piattezza narrativa del deludente Elemental, nuovo lavoro presentato in una mesta Salle Debussy semideserta come film di chiusura di Cannes76, che nel metaforizzare negli elementi naturali (in)compatibili i dettagli autobiografici del regista Peter Sohn, realmente figlio di immigrati coreani che furono proprietari di un piccolo negozio a New York City e realmente marito inter-culturale di una donna italo-tedesca-britannica, ha di fatto una sola intuizione di trama alla quale girare intorno – la necessità di salvare il quartiere “infuocato” di Firetown da un’inondazione che avrebbe estinto ogni suo abitante, mentre la giovane di fuoco e il giovane d’acqua inevitabilmente si innamorano e, fra le resistenze delle rispettive comunità, trovano la chimica necessaria per cambiare la propria composizione chimica e potersi finalmente unire a dispetto dell’impossibilità anche fisica di farlo –, e per buonissima parte dei 103 minuti del suo prevedibile scorrere non fa altro che far costruire ai suoi personaggi inutili barriere – prima di cemento, e poi di vetro temperato, o ancora semplicemente fondendo i tubi per tappare l’ennesima perdita che zampilla – destinate inevitabilmente a crollare, così come saranno destinate a crollare le resistenze della società e della natura al crescere dei reciproci sentimenti.
Quello che non crollerà mai sarà però la mentalità capitalistica, di una Disney che si accontenta di scendere al mediocre pur di avere un nuovo prodotto da lanciare ma anche di un film che tanto predica integrazione e incontro fra le differenti culture ma che nel frattempo vede il negozio di famiglia, e quindi il commercio e l’attività imprenditoriale più ancora che il lavoro, come l’unica possibile ragione di vita, come l’emblema di un’identità da proteggere e da salvare a ogni costo, probabilmente senza nemmeno rendersi conto di subire l’egemonia culturale statunitense nel darlo per scontato e aderire al sistema senza minimamente problematizzarlo. Certo, è apprezzabile la confezione tecnica dei fondali, nel consueto fotorealismo e nella consueta perfetta fluidità di prospettive e geometrie che immaginano una Element City riplasmata per le comunità di Acqua, Fuoco, Terra e Aria sugli skyline dei quartieri newyorchesi in un’esplosione di colori renderizzati dai potenti computer dello Studio leader nel settore, ma si tratta di standard oramai più che consolidati e che sono semplicemente il minimo sindacale da pretendere da una realtà ricca e tecnologicamente avanzata come la Pixar, e che anzi questa volta scoprono inaspettatamente il fianco a un character design indubbiamente riuscito ma che sembra non essersi più evoluto dal 2015 di Inside Out, e a piccoli e banali dettagli contraddittori (la comunità dei personaggi di fuoco non può avvicinarsi alle altre perché le incenerirebbe, eppure continua tranquillamente a maneggiare fogli di carta senza che accada loro nulla) che in altri tempi sarebbero stati facilmente evitati dalla maggiore cura per la narrazione. È per questo che Elemental, semplicemente, non funziona. Nonostante i pur condivisibili messaggi di integrazione e rispetto, nonostante la magnificenza delle cascate che si creano a ogni passaggio del treno, nonostante gli inseguimenti (disperati o giocosi) in cui cambiare forma per superare ogni pertugio, nonostante le foto insieme nelle rifrazioni della luce, nonostante quel granello di sabbia che è impossibile togliere dall’altrui orecchio, nonostante le mongolfiere e le ole d’Acqua che accompagnano il volteggiare delle nuvole d’Aria ai playoff di basket. Nonostante i minerali variopinti sui cui mimetizzare il colore delle fiamme e le superfici dei laghi su cui dolcemente scivolare, o magari da esplorare dall’interno di una bolla d’aria (per lo meno fino a quando non finirà l’ossigeno) nello schiudersi immediato dei fiori sommersi al passaggio della luce. Nonostante quell’abbraccio fra i fili di fumo dell’incenso accesi avvicinando al Fuoco la trasparenza dell’Acqua – lo sfavillare di lei e lui che ne completa il potere come una lente – e nonostante quelle lacrime che, dopo il bollore e l’evaporazione, non potranno che finalmente farlo ri-condensare, per sempre, nell’amore reciproco. Fino a quel saluto di massimo rispetto, da ricambiare nell’affetto e nella riconoscenza.
Lavora sui contrasti Elemental, sull’impossibilità di toccarsi. Da una parte Ember Lumen, peperina ventenne di Fuoco dal temperamento esplosivo che nel piccolo focolare blu conservato nella cantina del negozio conserva la storia e la dignità di una famiglia costretta a fuggire dal Paese d’origine per cercare difficoltosamente di integrarsi e di rifarsi una vita in una città ostile, e dall’altra Wade Ripple, sensibilissimo coetaneo acquatico dalle emozioni cristalline e dalla lacrima facile, che prima inguaierà Ember e il suo negozio facendo il suo lavoro da ispettore, e poi si renderà subito conto del disagio familiare e identitario provocatole, sentendosi in colpa e decidendo di aiutarla a rimediare al problema fino a innamorarsi. Elementi naturalmente pericolosi l’uno per l’altro, con lei che si estinguerebbe a contatto con l’acqua e con lui che si vaporizzerebbe a contatto col fuoco, ma che guidati dai sentimenti non potranno fare altro che cambiare composizione fino a riuscire a trovare la giusta combinazione e un nuovo bilanciamento con cui potersi sfiorare, con cui potersi tenere mano nella mano, con cui riuscire finalmente ad abbracciarsi. Una parabola che, passando per i conflitti generazionali e sociali con le rispettive famiglie e con le rispettive comunità da cui farsi accettare, si dipana però perfettamente chiara e prevedibile sin dai primissimi minuti, tanto che non scuotono le piccol(issim)e (e tutte uguali) avventure insieme e i primi inviti a casa, i sadici rifiuti da parte della chiusa comunità del Fuoco (Wade costretto dal padre di Ember a mangiare palle infuocate destinate alla clientela appartenente a un altro elemento) e le aspettative familiari da (almeno fingere di) riuscire a soddisfare, mentre l’amore scava all’interno dei personaggi fino a renderli disposti al sacrificio, pronti a smettere di nascondersi, pronti a bollire pur di salvarla e felici di morire sapendo di averla accanto fino alla fine, e a quell’ultima residua goccia che basterà per farlo tornare senza più dubbi né vergogne perché anche il Fuoco in qualche modo può piangere, e perché l’Acqua sa sempre come rigenerarsi. Il resto è un insistito ritorno di troppe volte a quella già citata crepa da chiudere insieme, e al suo progressivo rompersi sotto la violenza delle acque. Come se ogni tassello gridasse programmaticamente la sua funzione all’interno della progressione narrativa, senza più voglia (o forse più prosaicamente la capacità) di sorprendere, ma affidandosi praticamente in toto al tema contenuto nella metafora (e destinato forse più al target degli adulti che a quello dei bambini) e agli alti standard del comparto tecnico, mentre lo sviluppo narrativo si accontenta del puro canone preconfezionato (compresa la totale assenza di canzoni, un tempo fiore all’occhiello della Disney e – a partire da Toy Story – pure dei primi Pixar) lasciando ben presto spazio alla noia. Che, siamo d’accordo e anzi lo sosteniamo per primi, non è e non sarà mai una categoria critica. Ma che in un film d’animazione destinato alle grandi platee di grandi e piccini da tutto il mondo… ecco… potrebbe generare un qualche problema.
Marco Romagna