ELECTRO-PYTHAGORUS (A PORTRAIT OF MARTIN BARTLETT) (2017), di Luke Fowler
Visualizzare la musica, radicalizzare le parole, ripristinare un linguaggio. La figura singolarissima quanto isolata di Martin Bartlett, pioniere della musica elettronica sperimentale canadese, può essere un punto di partenza straordinario quanto inusuale nel condensare un percorso che possa legare più esperienze in una direzione comune. E non poteva essere che un altro esperimento, l’Electro-Pytagorus (A portrait of Martin Bartlett) di Luke Fowler presentato al DocLisboa 2017, a tentare di definire una parabola dialettica e variabile, dalle mille traiettorie sensibili e pulsanti. Bartlett, vicino a Riley come a Nath, a Tudor come a Cage, appassionato di musica indonesiana come di aleatorie combinazioni teatrali, è stato un personaggio fondamentale quanto sottovalutato dello sviluppo del suono ai tempi dei computer, dimenticato anche da una morte assai prematura per AIDS nel 1993. Guardare la sua musica, o almeno ricrearne una suggestione, può essere affascinante quanto alienante.
Fowler pensa a un ritratto profondamente intimo ed estremamente soggettivo, attraverso archivi di ogni tipo e quaderni più che mai scarabocchiati, corrispondenze sui propri esperimenti e una mole enorme di lavori inediti, suoni dissipati in una contemporaneità ormai sorda. Quello compiuto da Electro-Pytagorus è un percorso quasi alla ricerca dell’intonazione impossibile, alla folle ricerca del limare un’approssimazione (tecnica quanto filosofica), senso più profondo dell’evoluzione temporale e spaziale della musica di Bartlett. I suoi suoni rappresentano più che mai, anche a livello metaforico, la grevità della terra e l’imperturbabilità del destino, sintetizzati e campionati, fabbricati da supporti elettronici eppure straordinariamente materici. Il tappeto sonoro si fa così sfondo organico a una Vancouver dispersa nella grana della pellicola, dai colori rarefatti e suburbani, descritta dalla voce dello stesso Fowler che commenta le visioni del compositore, fra gli stralci di una ricerca totalizzante e quasi disperata nel suo essere diverso da omosessuale così come da sperimentatore. E alle sue riflessioni sulle condizioni dei gay in quel Canada e della malattia nella società tutta. Da uomo solo, a scandagliare il vuoto.
Sarà proprio l’HIV a destabilizzare ancor di più Bartlett, consapevole della fine e disperato per dover abbandonare tutto un lavoro estremamente profondo e complesso sulle applicazioni delle nuove tecnologie nel suono, iniziato già a fine anni Settanta con i primi micro-computer. Dagli studi matematici della composizione (proprio quelli a cui si rifà il titolo del film di Fowler) alle visioni dei lavori postumi, dall’attività di professore a quella di creatore del laboratorio multidisciplinare di Western Front, il genio canadese ha saputo tracciare una strada apparentemente unica e dall’eredità sicuramente ingombrante nella sua sterminata provvisorietà. Fowler gli rende omaggio con un film che abbandona l’idea dell’opera saggio e/o documentaria per una strada più tortuosa e vorticosa, emozionale e straziante, riflessione in celluloide sulla distanza e sulla perdita, sul senso del vuoto o almeno sul suono che nel vuoto possiamo ascoltare. Come per lasciare una traccia, o forse estrapolarla, un segno unidimensionale del passaggio che segni l’oblio, quello del corpo ma non dell’anima. Nella musica di Bartlett e nel suo ascolto, così come in questo ritratto fragile e appassionato dipinto su pellicola da Fowler, con tratto accennato e minimale. Inevitabilmente necessario.
Erik Negro