EL PROCESO DE BURGOS (1979), di Imanol Uribe
“Lehengo batean / kalearen erdian / Benta-Handi erdian, / Xabier anaia, hil zuten. / Eta nola gu / gu, egunerok patxara merkean / oso lasai bizi geran… / geure izerdia xurgatzen duten / beste jende horiek / bihar ere, / beste bat hilko dute. / Lehengo batean / kalearen erdian / Benta-Handi erdian, / Xabier anaia, hil zuten. / Eta nola gu / gu, egunerok patxara merkean / oso lasai bizi geran… / geure herria zapaltzen duten / beste jende horiek / bihar ere, / beste bat hilko dute.”
(canzone popolare in memoria di Xtabi Extebarrieta,
esponente dell’ETA, ucciso dalla Guardia Civil il 7 giugno 1968 –
traduzione spagnola a cura di Luken Hidalgo, che ringrazio,
e mia trasposizione in italiano affannoso:
“Non molto tempo fa / in strada / con Benta Haundi / Hanno ucciso il nostro fratello Xabier. / Era come noi, / che viviamo in pace / la stagnazione nella nostra tranquillità… / Quelle sono altre persone / che vivono attraverso il nostro sudore; / un altra mattina / di nuovo / ce ne uccideranno un altro, / ed un altra mattina / di nuovo/ noi ne uccideremo un altro“.)
^ documentazione storica ripresa dagli archivi di “El Pais” e “Il Corriere della Sera”, “homolaicus.com” (1979-2002/15).
Quasi per caso nel mio lunghissino viaggio verso DocLisboa la prima tappa fu proprio nella terra d’Euskadi. Due notti e tre giorni, tra Donostia, Bilbao, Eibar e poi via verso la Galizia. Mai avrei pensato che nella splendida retrospettiva sul cinema (e il) terrorismo “I don’t throw bombs, I make films” (Fassbinder docet!) avrei ritrovato un documento fondamentale sulla lettura della questione basca contemporanea. Il lavoro di Imanol Uribe personalmente non è altro che un discorso iniziato con i ragazzi che giravano con l’Ikurrina sulle spalle nella città vecchia di San Sebastian: ti fermi con loro, e presto ti raccontano della battaglia dei loro genitori, della questione oggi e di come una lotta così forte di autodeterminazione non può sicuramente fermarsi con un cessate il fuoco. Anzi quell’atto può solo essere la nascita di una nuova, e più forte, rivendicazione culturale
Per parlare di un film del genere, a diretto contatto tra la storia e l’identità, è necessario fare un passo indietro a cercare le vere radici (impossibili) del popolo basco, che sono tuttora in parte ignote. Probabilmente le origini sono legate all’uomo di Cromagnon, quella terra la abitano dal IX millennio a.C., e nonstante siano stati a contatto con altre popolazioni, e ne vennero influenzati, mai furono assorbiti. I baschi formarono solo molto tardi un regno unitario, furono in parte conquistati dai Romani e nei secoli successivi subirono innumerevoli tentativi di invasione tutti respinti fino ad ottenere una prima indipendenza nell’ottavo secolo. Si persero poi nel Ducato di Vasconia, riottennero una autodeterminazione con il regno di Pamplona (la storica capitale Iruñea) fino al 1512, all’assorbimento da parte dei Castigliani che negli ultimi anni dell’Ottocento sembrava per sempre minare e smantellare l’identità del popolo più antico d’Europa.
Con Sabino Arana e la prima bandiera Ikurriña (aggiungentesi al Lauburu, al Gernikako Arbola ed ad altri simboli storici) ci fu però una nuova e veemente reazione che portò alla nascita del PNV; si cercò in tutti i modi l’indipendenza (anche con un referendum vinto con l’84% e mai preso in considerazione) fino all’arrivo del generalissimo Franco. L’obiettivo del regime franchista era quello di eliminare ogni elemento che potesse catalizzare il patriottismo d’Euskadi; voleva semplicemente annientarli, non solo annichilirli (basti pensare al bombardamento di Guernica, concordato da Franco ed Hitler, nel distruggere l’Assemblea Basca e non solo). Durante la Seconda Guerra Mondiale i Baschi appoggiano ufficialmente gli alleati contro le forze del generale, ma appena finita la guerra gli americani si “dimenticano” della questione basca e la repressione franchista sarà sempre più forte. Durante un altro periodo di rassegnazione e delusione all’interno del PNV nel 1952, un gruppo di studenti indipendentisti fonda EKIN (azione), che nel 1959 abbandona definitivamente il partito per dare vita all’ETA (Euskadi Ta Askatasuna – Paesi Baschi e Libertà).
Si pongono subito come un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista, separatista e d’ispirazione marxista-leninista. Gli obbiettivi dell’ETA sono principalmente incentrati sulla salvaguardia della lingua basca (l’euskera), l’antifascismo, l’antispagnolismo e l’indipendenza dell’Esukal Herria, cioè la regione che comprende le tre province basche di (Álava, Guipuzcoa e Vizcaya), oltre a una parte della Navarra (Nafarroa) e ai paesi Baschi francesi (Lapurdi, Beherea e Zuberoa). La violenza come arma di lotta politica viene introdotta nell’ETA soltanto dopo la quinta assemblea dell’organizzazione, svoltasi nel dicembre del 1966 presso la casa di un prete di Gaztelu (in un primo momento ogni atto era mirato contro obiettivi politici e militari di stampo franchista, mai contro civili). Dopo un paio di tentativi terroristici falliti in malo modo, il 7 giugno 1968 l’ETA commette il suo primo omicidio per la causa basca. La repressione della polizia franchista non si fa attendere e il responsabile dell’omicidio, esponente di prim’ordine della formazione terrorista, Txabi Etxebarrieta, viene freddato in uno scontro a fuoco. Nel giro di poco tempo l’ETA contrattacca. Questa volta a cadere è il capo della polizia di Guipuzcoa, Meliton Manzanas. La risposta delle forze dell’ordine porta a molti arresti e al processo di Burgos (3 dicembre 1970).
Xavier Izko viene incolpato dell’ assassinio materiale di Meliton Manzanas, mentre Teo Uriarte, Jokin Gorostidi, Xabier Larena, Unai Dorronsoro e Mario Onaindia sono imputati di «incitamento all’omicidio». Per tutti e sei l’ accusatore chiederà la pena di morte. Per gli altri, fra i quali vi sono due sacerdoti, lunghissime pene detentive. E’ in base ad una legge franchista che i reati politici sono assimilati alla ribellione militare e vengono giudicati da Consejos de Guerra, cioè da tribunali militari. Per i responsabili di terrorismo e di ribellione è prevista la pena di morte ed è chiaro fin dal primo momento che la sentenza è scontata. La conclusione è rapida, anche se clamorosi incidenti turbano il buon ordine del procedimento. Gli imputati si dichiarano prigionieri di guerra continuando a gridare la propria indipendenza in aula. Si teme per la vita del console della Germania occidentale a San Sebastian, Eugen Beihl, rapito alla vigilia del processo; il console però è fortunato perché l’ETA< ha capito che, per lei, è meglio vivo che morto. Beihl viene liberato il 26 dicembre, due giorni prima della sentenza finale. Il 28 dicembre il Consejo de Guerra condanna a morte i sei principali accusati, tre dei quali con doppia pena capitale. Il 31 dicembre, obbedendo ad una raccomandazione unanime del governo la cui immagine è uscita definitivamente danneggiata agli occhi del mondo, il Caudillo commuta le pene di morte in ergastoli.
Il film di Uribe doveva essere un document(ari)o di più di tre ore, con alcuni filmati, ma la quasi totalità del film si dipana in una serie di interviste con i sedici membri dell’ETA che erano stati processati in Burgos. Considerevoli sono anche le parole dei tre avvocati della difesa e le loro personali e professionali ritrosie davanti a quel processo assurdo. Con questo materiale, Imanol Uribe ha costruito una relazione completa e lineare. Il suo più grande lavoro è stato certamente il montaggio, ordina senza manipolare, riesce a far parlare una storia complessissima ed essere anche esplicativo. Per tutta la prima parte, gli imputati si espongono, raccontano come sono entrati nell’ETA, le motivazioni che li hanno portati ad essa, e la loro prima attività fino all’arresto. Nella seconda parte del film, ciascuno descrive in dettaglio il processo stesso dal suo punto di vista ed il ruolo personale ed emozionale svolto all’interno di esso. Purtroppo, per la necessità di ridurre il film ad un reportage (anche televisivo), Uribe è stato costretto a tagliare in montaggio una terza parte in cui gli imputati parlavano dei giorni in carcere, l’amnistia, la reintegrazione alla vita quotidiana e il punto di vista sul futuro stesso della questione basca.
Imanol Uribe (nato a San Salvador, ma di origine basca e sempre vicinissimo a questa causa) nonostante questo è riuscito a regalarci un documento impeccabile sotto il segno di obiettività e non manipolazione ideologica del girato, montato con la passione e il rigore. In fondo è semplicemente un viaggio in una terra straordinaria, assolutamente unica, che rivendica solo (con modalità in qualche momento troppo cruda, ma spesso necessaria) uno spazio fisico, etico e morale prima di identità e poi d’indipendenza. Il processo di Burgos è una storia ben nota, un punto di svolta anche dell’opinione pubblica europea, ma solo vedendo le stesse facce dei suoi “protagonisti”, le loro espressioni, i loro discorsi, riusciamo a capire cosa loro possono aver vissuto. Di li a poco il franchismo vedrà la fine, lo spettacolare attentato a Blanco, l’ultima Garrota al catalano Puig segnarono la fine del terrore di un periodo estremamente complesso. Pensare ad un ETA successiva al processo, dalle divisioni interne, passando per attentati verso i civili fino al cessate il fuoco di una quindicina di anni fa, ha molto meno senso che guardare ai giorni di Burgos. Guardarli negli occhi, quei sedici ragazzi, è un momento imprescindile di comprensione e di forza stessa che può aver l’immagine nell’interrogare ed interrogarsi sulla storia. Quei ragazzi a Donostia mi hanno lasciato consigliandomi questo film. Io l’avevo già visto, l’ho rivisto molto volentieri, anche se non ho mai avuto dubbio sul scegliere da che parte stare. Lunga vita ad Euskadi!
Erik Negro