EL PISITO (1959), di Marco Ferreri e Isidoro M. Ferry
C’era già moltissimo del futuro cinema di Marco Ferreri, nel suo esordio El pisito, letteralmente “L’appartamentino”, ovvero quel sogno quasi proibito dalla povertà che falcidiava la Spagna franchista di fine anni Cinquanta. C’era già la disillusione del grande regista, c’erano già le sue tematiche di riferimento, c’era già la sua pura ossessione. C’era già l’uomo debole, incapace di reagire ai piani della donna che lo controlla e lo manovra come se fosse un burattino, c’era già, appunto, la donna fredda e calcolatrice, pronta a obbligare il fidanzato – peraltro parlando apertamente a chiunque dei suoi secondi fini, senza più nemmeno il senso del pudore – a sposare l’anziana proprietaria di casa pregustando l’immobile e il libretto bancario in eredità, c’era già l’attesa cinica e immorale quanto snervante di una morte che sembra non arrivare mai per oltre due anni, e c’era già lo squallore di un’umanità ormai svuotata di ogni valore e protesa solo alla convenienza. C’era poi la desolazione di una quotidianità asfissiante, fatta di una povertà di pari passo etica ed economica che non può che portare all’eterna insoddisfazione, c’era già tutto lo humour nerissimo tipico del regista, caustico e spietato nelle sue analisi sociali, antropologiche ed esistenziali, così come c’era già lo svuotamento progressivo e inarrestabile dell’umanità, l’alienazione di chi è inevitabilmente inadeguato, l’amarezza di fondo di chi non può che essere destinato alla sconfitta. Fra il 1958 delle riprese e il ’59 della prima, al tempo di El pisito presentato e premiato proprio qui a Locarno dove oggi ha ritrovato lo schermo in occasione della retrospettiva di esordi istituita per festeggiare la settantesima edizione della kermesse ticinese, Marco Ferreri era appena trentenne, e girava fra Italia, Francia e Spagna spartito fra il lavoro come pubblicitario e quello come venditore di proiettori. Fu l’incontro con Rafael Azcona, scrittore spagnolo autore del romanzo omonimo da cui El pisito verrà tratto e che di lì a breve diventerà lo sceneggiatore di fiducia di Ferreri per oltre trent’anni, a fornire al regista milanese l’occasione per il suo primo lungometraggio.
Messi in scena con uno stile fatto di long take, stacchi di montaggio volutamente dissonanti e continue contraddizioni a partire da un profano ferro di cavallo appeso al soffitto che si incrocia nella profondità di campo con la sacralità del crocifisso, Rodolfo e Petrita sono immersi nella miseria e nella penuria di immobili della Spagna del tempo. L’ostacolo insormontabile per il loro matrimonio è la necessità di un “pisito”, di un piccolo appartamento nel quale convivere, per ottenere il quale lui, ma soprattutto lei, sono ormai disposti a tutto. Con sguardo quasi neorealista, pronto però a ribaltare qualsiasi forma di commiserazione nell’ironia più impietosa, Ferreri rappresenta la loro povertà come la seconda faccia della loro disumanità altezzosa, come se l’una fosse diretta conseguenza dell’altra, o meglio come se le due miserie – bancaria e spirituale – si compenetrassero, a ridefinire e destrutturare ogni residuo vagito di pietà. Ferreri svuota del tutto la famiglia, svuota le personalità, mette al centro la colpa di chi amoreggia impunito anche di fronte a un letto di morte, punta il dito tanto su chi è ostinatamente egoista quanto su chi è un burattino senza palle, che non reagisce alle storture del mondo intorno a lui ma finisce per arrendersi a esserne una pedina. El pisito è un film di dissonanze, di discorsi accavallati e talmente vuoti da diventare progressivamente incomprensibili, di allegre musiche da circo che irrompono nei momenti più drammatici, di svenimenti, di giochi delle parti, di profonda amarezza che emerge anche negli istanti più irresistibilmente spassosi. Ci sono gli apparecchi acustici che ricordano la sordità del mondo nei confronti della sua marcescenza, c’è una (sedicente) medicina fatta anch’essa di interessi e di pessimi consigli, c’è una zitella acida che si farà sfruttare, c’è un desiderio sessuale che va ben oltre quello amoroso, ci sono i sogni frustrati di chi vorrebbe diventare ricco con i pop corn, e persino i bambini, anziché simbolo di vitalità, diventano un incessante vociare, una condanna, l’impossibilità di essere tranquilli. Bambini che trascinano sedie citando apertamente il Jean Vigo di Zero in condotta, bambini che sono in un certo senso la naturale prosecuzione di un funerale, oppure bambini che, sul tavolo di cucina, svuotano i loro giovani intestini nei vasi da notte.
Un solo personaggio, pur nelle sue accettazioni dell’inaccettabile, è degno di pietà, e si tratta proprio, paradossalmente, dell’anziana che accetta il matrimonio di convenienza con il suo aitante inquilino. Lo fa per l’unico sincero vagito d’altruismo, lo fa per aiutare una coppia, tanto da fare loro l’ultimo regalo, in uno slancio lirico che si staglia come un raggio di luce sull’umanità putrescente messa in scena, pure sul letto di morte, proprio mentre i due per l’ultima volta la umiliano e la usano, fino alla fine dei suoi giorni. È molto semplice e lineare, la trama di El pisito, eppure estremamente stratificati sono i suoi sensi, la sua assenza di verità assolute al di là della certezza della sconfitta, le sue continue sovrapposizioni fra l’umano e il disumano, fra il lirico e l’impietoso, fra l’amore e la morte, fra il sociale e l’intimo, fra il drammatico e il comico. Come se fosse un intreccio shakesperiano, il primo film di Marco Ferreri, accreditato in co-regia con Isidoro M. Ferry, si traveste da commedia nera per balzare fra i cambi di registro, lavora di sfumature, lascia emergere le ambiguità e le dissonanze, anticipando la maggior parte dei temi che il regista affronterà poi nel corso della sua luminosa carriera. È un grande film sulla mostruosità, sulla frustrazione, sulla colpa, sulla perdita di valori, sull’ossessione, sull’indifferenza, in cui tutti sono vittime e tutti sono carnefici, tanto la perfida burattinaia Petrita, quanto l’inetto protagonista che da lei si lascia manovrare, quanto l’intero condominio popolare, nel quale ognuno pensa a se stesso a discapito di chiunque altro. Anche il padrone della casa della contesa, interpretato da un quasi irriconoscibile Marco Ferreri imberbe nel gustoso cameo che arriva dopo pochi minuti, dice chiaramente che qualcuno deve morire per primo, e che è decisamente meglio che siano gli altri a farlo. È una dichiarazione d’intenti intinta nel calamaio dell’ironia più amara, quella stessa ironia che sarà tipica del regista e del suo cinema straniante e alienante come le ambientazioni fatte di abusi edilizi e squallore. E poco importa se, da buon esordiente, Ferreri ha forse peccato qua e là di leggero didascalismo, oppure se forse ha un po’ troppo calcato la mano su simbologie non ancora gestite come saprà fare nel prosieguo della sua esperienza cinematografica: El pisito è, ancora oggi, un film (in)afferrabile e folgorante, disilluso e amaro, duro e divertente. È una corsa a perdifiato in un immaginario surreale e mostruoso, eppure tangibile, percepibile, atrocemente vero. Come la foto ricordo di un matrimonio nato infelice, in cui le facce sono tese, gli invitati chiacchierano distratti, e qualcuno finisce inevitabilmente per fare le corna allo sposo.
Marco Romagna