Basterebbe forse la corsa iniziale per salvare una giovanissima pecora tirandola fuori dalla pozzanghera in cui chissà come si è andata a cacciare. Basterebbe la pioggia che diventa progressivamente fiume, mentre i fulmini tagliano in due il cielo dietro al cavallo fermo in mezzo al prato. Basterebbe il gioco fanciullesco di fare scuola ai propri peluches modulando la voce su ogni possibile personaggio, o quello forse ancora più puro e istintivo di inseguire un’oca per i campi. Basterebbe la tenerezza del bagno nella tinozza da fare «come se fosse un bambino» alla nonna dolcemente sdentata sotto ai suoi decenni di rughe e di acciacchi, o ancora basterebbero quelle vecchie leggende di atavica paura raccontate davanti al fuoco per far stare all’erta i bambini in una zona di sparizioni e rapimenti, fatte di demoni e di streghe succhiasangue che si sovrappongono alla crudeltà degli uomini. Basterebbero i primissimi piani degli animali nella notte, il coniglio, le pecore, i cani, le galline che si arrampicano fin sulla testa dell’asinello. Con lo stesso spirito di simbiosi di una comunità rurale e fuori dal tempo, sempre uguale nel lavoro nei campi e nello scorrere delle stagioni, nella quale fanno tutti parte di un’unica grande famiglia in cui non servono reali rapporti di parentela, ma solo la profondità di un senso di appartenenza con cui fare insieme la legna per scaldarsi d’inverno, con cui portare avanti la memoria condivisa, con cui aiutarsi a vicenda per identità culturale e puro spirito di solidarietà. Una collettività in cui potersi fidare degli altri, proprio come i bambini che chiudono gli occhi, sorridono e si lanciano all’indietro verso gli amichetti in semicerchio, sicuri di non cadere perché qualcuno saprà sempre prenderli al volo. La stessa fiducia che tutti gli abitanti, piccoli e grandi, si sono convinti ad accordare a Tatiana Huezo, autrice nativa di El Salvador ma da sempre di stanza in Messico, che con l’ormai consueto sguardo di immagini straordinariamente poetiche ed evocative sull’uomo e sulla natura che seguono e rilanciano quelle di Tempestad e Noche de fuego, ma soprattutto con un percorso umano lungo chissà quanto tempo passato a vivere insieme e a condividere intimamente la medesima quotidianità, ne racconta la vita coinvolgendoli uno per uno nella rappresentazione di se stessi. Un cinema del reale che si immerge nel minuscolo paesino di El Eco, a nord del Messico, e nella sua immutabilità sospesa, primordiale, tanto selvaggia nella sua wilderness quanto umanissima nella coesione necessaria per domarla. Un matriarcato che affida l’intera gestione della casa e della famiglia alle donne mentre i padri, fra costruzioni, coltivazioni e commerci di carni e di pelli, tornano a casa solo a fine giornata, ma soprattutto un luogo dalle tradizioni antichissime, ataviche, tramandate di generazione in generazione nelle occupazioni e nelle giornate sempre diverse ma sempre identiche. Un luogo dove si impara sin da bambini a curare ma quando necessario anche a sgozzare e a scuoiare gli animali, dove il lavoro di agricoltura e pastorizia è sacro e ognuno indossa gli stivali per fare la propria parte fino alla tinozza serale in cui lavare via il fango, e dove ogni singola pianta ha una procedura di preparazione e una proprietà benefica – i “rimedi di una volta” – da conoscere e saper sfruttare. Un luogo in cui i più grandi fanno da chioccia, o magari da veri e propri insegnanti, ai più piccoli, un luogo di corse schiaffeggiando a palmi aperti le spighe di grano, di ombre che si allungano sempre più sull’erba e di silhouette che si divertono al tramonto. Un luogo dove perfino la morte nient’altro è che una sfaccettatura del ciclo della vita, un momento di passaggio destinato a trovare il proprio controcampo nell’asinello che si attacca alle mammelle della madre per bere il latte nella nebbia.
Per un cinema miracoloso, lirico e delicatissimo nella sua apparente semplicità, fatto di fisicità e sudore, di figure che emergono dalla penombra nella tridimensionalità dei tagli laterali di luce rigorosamente naturale, di echi che risuonano per la valle fischiando nei gusci vuoti delle bacche. Ma soprattutto di tocco. Presentato fra i primi titoli della sezione Encounters e già di diritto fra i film migliori della 73ma Berlinale ma molto probabilmente anche dell’intero anno cinematografico, El Eco segue lo scorrere delle stagioni, i giochi e la formazione dei bambini, il lavoro degli adulti, Emiliano Zapata da ritagliare dalle figurine e da tramandare per le generazioni come eroe della Patria. Segue i dialoghi con cui chi ha già avuto le prime mestruazioni anticipa come «perderai un po’ di sangue dalle parti intime, ma è normale» a chi invece non ha la minima idea di cosa succederà di lì a poco al suo corpo, e filma il sogno (frustrato) di correre e vincere le gare in sella al cavallo al galoppo. Fra l’inusitata tenerezza del rapporto con la nonna che finge di vedere ancora al di là degli occhiali, il dolore più atroce quando deciderà di «consegnarsi a Dio» e l’esistenza che comunque, come sempre, continuerà ad andare avanti. Non serve che “succeda” necessariamente qualcosa, in El Eco. Quello che conta è la sensibilità dello sguardo, è la tenerezza dei momenti più intimi, è la capacità di filmare, sospeso fra la pura osservazione del documentario e la messa in scena di un vero forse ancora più assoluto, lo scorrere della vita, della malattia, della morte, dei sentimenti, della fiducia, dell’affetto, dell’appartenenza. Quello che conta è capire intimamente un luogo, entrare a farne parte, coglierne la poesia e trasformarla in creazione. Con una macchina da presa, silenziosa nelle sue lunghe focali, ora statica e ora forsennata nell’inseguimento dei dettagli, delle rifrazioni della luce, delle lacrime che salgono fino agli occhi, degli insetti che volano da un protagonista all’altro. Degli sguardi silenziosi, delle attese, delle piccole e grandi ribellioni. Come nel miglior cinema di Roberto Minervini, quello di Stop the Pounding Heart commovente conclusione della trilogia texana, ma abbassando ulteriormente lo sguardo verso l’altezza dei bambini, prossimi depositari dell’identità culturale di quel luogo sublime ma al tempo stesso atterrente nello scorrere immutabile delle sue giornate e delle sue stagioni, nella stessa vita rurale che fu dei nonni dei nonni dei nonni, nella sua vita pura eppure di fatto primitiva, medievale, consapevolmente al di fuori dal mondo contemporaneo. Una sola moto, attrazione irresistibile per ogni bambino, appare una sola volta in paese, e il finestrino del furgone che il padre usa per andare al lavoro (o meglio, ai lavori), più che a spostarsi chissà dove serve a disegnare giocosamente con un dito la propria famiglia sul vetro appannato e rigato dalla pioggia. Il resto, senza ancora nemmeno l’acqua corrente, né un telefono cellulare, forse nemmeno l’elettricità, sono le stesse identiche attività degli antenati, le uniche possibili della vita rurale, gli animali da portare al pascolo, i campi da arare, le pecore da tosare, i frutti da raccogliere, il fuoco con cui illuminare la notte e scaldarsi. Una vita accettare per come è o da rifiutare in toto, decidendo di partire per non tornare più. Come l’anima troppo libera e ribelle della giovane Monse, dal veto materno di correre a cavallo alla decisione di scappare in città e scoprire il mondo, di allargare gli orizzonti, di cambiare il suo destino o per lo meno rivendicare il diritto a una scelta più consapevole abbandonando, forse per sempre, la vita di campagna e la comunità riservatale dal diritto di nascita, i matrimoni da giovanissimi e i figli come più grande ricchezza, la voglia o non voglia di studiare e la ferma volontà di rimanere a dare una mano alle attività dei genitori. Un’unica piccola svolta narrativa pienamente simbolica e politica, con cui stratificare l’idillio bucolico delle sue inevitabili contraddizioni e della sua sostanziale opposizione al resto del mondo che si muove a un’altra velocità, con cui rimettere tutto in discussione nella contrapposizione fra due opzioni di vita troppo differenti per non finire necessariamente in contrasto e imporre una difficile decisione: da una parte la purezza antica, dall’altra le opportunità moderne; da una parte una micro-società solidale ma anche chiusa e immobile nel suo pugno di abitanti e nelle sue attività obbligate dalla Natura, dall’altra l’individualismo del Capitale in mezzo a milioni di persone ma anche le conquiste, la libertà e i comfort di una costante evoluzione sociale e tecnologica mai realmente giunta a El Eco. Rimane la mestizia del corteo funebre della nonna, rimangono le preghiere e le grida di strazio che sferzano e contrastano il sublime della Natura che sta lentamente alzando il sipario della sua nebbia mattutina, rimane il sale di qualche lacrima ancora depositato lungo le guance. Mentre il miracolo della vita riprende dall’inizio il suo corso con il parto ovino in cui la madre e le bambine aiutano a nascere la nuova pecorella: le zampette da cui tirarla, la neomamma da accarezzare, la placenta da togliere per liberarle il naso e farla finalmente respirare da sola. Pronta a camminare e a scoprire per la prima volta il suo personalissimo mondo, dove vivrà felicemente accudita e protetta per la sua intera esistenza.
Marco Romagna