EL DIABLO ENTRE LAS PIERNAS (2019), di Arturo Ripstein
L’amore e l’odio, il desiderio e la repulsione, l’intesa e il fastidio, l’affetto e la noia. Il bello e il brutto, l’abitudine e la memoria, il paradiso e l’inferno, il sorriso e la frustrazione. Ma anche il sospetto e la colpa, il pensiero e il fraintendimento, la libertà e il possesso, l’esaurimento di una passione nella contemporanea e paradossale gelosia, il non piacersi né sopportarsi più in alcun modo pur sapendo perfettamente che il legame è oramai troppo profondo, e che nessuno dei due potrà mai fare a meno dell’altro. Contrasti quotidiani e inevitabili che si inseguono e convivono, ogni giorno a braccetto, mentre il peso degli anni schiaccia i corpi e i volti un tempo attraenti e adesso invece flaccidi e rugosi, appassiti nei loro settant’anni e in un matrimonio stanco, stantio, spossato, burrascoso, velenoso, eppure almeno a tratti ancora inaspettatamente dolcissimo. Perché certo, a partire dal titolo esplora la voglia, la sessualità e l’erotismo nella terza età El diablo entre las piernas, letteralmente “Il diavolo in mezzo alle gambe”. Esplora, in una contemporaneità che sa essere alienante senza nemmeno bisogno di automobili e cellulari, gli acuti e le derive nella libido senescente, esplora gli impulsi sessuali e le residue perversioni, esplora i tradimenti, le pratiche più bizzarre e i più assurdi feticismi in una coppia ormai tossica e anziana. Esplora un erotismo che sopravvive, superando la caducità dei corpi e le incapacità fisiche, a costo di rendersi sfacciato, ridicolo nella sua incapacità di gettare la spugna, e forse proprio per questo così sincero. Ma quello che più rimane alla fine del percorso compiuto dal nuovo lavoro dell’eterno classe 1943 Arturo Ripstein, presentato in prima europea all’International Film Festival Rotterdam 2020 all’interno di quel geniale programma The Tyger Burns in cui Olaf Möller ha dimostrato come la forza rivoluzionaria di autori ultraottuagenari come i vari Yamada, Cardoso, Hara, Herzog, Vachek, Smirnov, Obayashi e Ruy Guerra sia ancora molto lontana dall’esaurirsi, è un qualcosa di molto più intimo, profondo e toccante. Il veterano messicano, tornato alla regia di un lungometraggio quattro anni dopo i nani combattenti e le vecchie puttane dello spassoso, stratificato e politicissimo La calle de la amargura, mette in scena fra fotografie ai culi prima di ogni (pseudo) amplesso, allusioni, fraintendimenti, libretti di insulti e mariti cornuti che attendono pazientemente fuori casa che la moglie sia soddisfatta da un altro, l’abitudine anche ai continui litigi, l’angoscia del trascinarsi su un binario apparentemente morto, la solitudine di chi sta insieme forse/mai da troppo, il vuoto esistenziale e quell’alienazione che tante volte, in oltre mezzo secolo di carriera, è stata al centro del suo abbacinante bianco e nero e della sua ironia assurda e sorniona. Ma soprattutto mette in scena, con la consueta (tragi)comicità nerissima e surreale mai abbandonata dai tempi in cui appena diciottenne e non ancora accreditato assisteva Luis Buñuel sul set de L’angelo sterminatore, e con i consueti “mostri” (proto)mareschiani a incarnare la sciatteria e la goffa sozzura di ogni mediocre, i sentimenti contrastanti, il cercarsi e il respingersi, il punzecchiarsi e il gratificarsi, il controllo sull’altro e al contempo la totale resa a chi, specularmente, ti conosce talmente a fondo da leggerti come un libro aperto, e da sapere esattamente come comportarsi per scatenare quella tua ben precisa reazione. A costo di creare deliberatamente problemi pur di superarli insieme, ancora una volta, invecchiando ancora un po’ in quella casa piena di modellini scientifici e di fotografie, di ricordi e di segreti di Pulcinella, di parole al vetriolo e di appunti su cui amorevolmente raccoglierle proprio perché paradossale dimostrazione di un amore ormai per sempre frustrato nella sua antica carnalità, ma mai del tutto spento nemmeno sotto le rughe, l’appropinquarsi dell’andropausa o l’inesorabile tracollo di un seno cascante.
È ancora una volta il destino, l’elemento che tutto muove nei film di Arturo Ripstein. Un disegno superiore, incontrollabile, al quale non si può fare altro che ubbidire e adattarsi. È destino di Beatriz e dell’anonimo vecchio farmacista omeopatico in pensione stare insieme e condividere le poche gioie e i molti dolori, è il loro destino scannarsi verbalmente ma anche non riuscire a smettere nemmeno durante il tradimento di pensare l’uno all’altra, è il loro destino essere rimasti soli con i rispettivi figli ormai per sempre lontani, e sarà il loro destino supportarsi e curarsi reciprocamente nell’avanzare ulteriore dell’età, dei problemi, delle malattie, del loro personalissimo Ultimo tango messicano di una media borghesia invecchiata e imbolsita, consapevole di non avere più né discrezione né tanto meno alcun tipo di fascino. È il loro destino condividere la casa, spazio scenico nel quale Arturo Ripstein ancora una volta, nel suo ventinovesimo lungometraggio, ragiona sullo spazio e sulla messa in scena in una costante danza voyeuristica eppure discreta di una macchina da presa che si sposta fluida fra le stanze e nel giardino, incorniciando i suoi protagonisti in lunghi pianisequenza di altalene emotive e di quotidiane incomprensioni. Ma soprattutto è il loro destino condividere il tempo, gli anni che sono passati forse troppo brevi e gli infiniti minuti di ogni singolo e assordante mutismo, quel passato che è croce e delizia nel ripresentarsi agrodolce della memoria e quel futuro incerto ma (in)evitabilmente insieme. Un destino che nessuno, nemmeno la servetta che tenta di sfidarlo e che per molti versi lo incarna nella sua profonda conoscenza dei padroni e nei suoi interventi sempre decisivi sul loro rapporto, potrà in alcun modo alterare. Nessuno dei due, nemmeno per un momento, nemmeno all’apice della stanchezza e dello squallore, ha mai realmente pensato al divorzio e all’abbandono: lei ha riempito il suo senso di vuoto con il silenzio, lui con la rabbia e almeno un’amante fissa. Reazioni differenti e ugualmente paradossali per esprimere lo stesso sentimento. La malizia di quando si era giovani e belli è ormai frustrata dal tempo, il desiderio deve continuamente fare i conti con il disgusto, ma non c’è mai in alcun modo indifferenza fra i coniugi. Ci sono aperti dispetti, ci sono relazioni adulterine e tentativi di seduzione, ci sono ripicche e ferite, c’è un perenne gioco a cercarsi e a respingersi, c’è la ricerca disperata di qualcun altro a cui ancora piacere per come si è diventati, c’è l’autodeterminazione come causa e contemporanea cura del logorio della vita di coppia, ma non viene mai meno il pensiero nei confronti dell’altro, non viene mai meno l’illusione di voler ricercare anche in un/un’amante più giovane quegli stessi odori e quella stessa personalità del coniuge e unico amore, non viene mai meno il dirsi la verità. Magari con qualche omissione di poco o maggior conto, magari vergognandosi un po’ delle sessioni di tango e di quella corte (in)discreta e frustrante al compagno di ballo, magari con qualche scena madre di vene (non) tagliate e sguardi falsamente risoluti provocatoriamente rivolti dall’altra parte, ma mai realmente mentendosi. Nemmeno dopo una cameraccia d’albergo a ore, nemmeno dopo quel tradimento dopo anni di innocenza, corna e fraintendimenti. Un tradimento non per ripicca, e nemmeno per invidia, ma per il semplice fatto che le andava di farlo, per ricominciare a seguire la propria natura, la propria spontaneità, la propria voglia di un momento o forse di una vita, di certo un’urgenza da soddisfare. E per poi poter dire la verità, come sempre, trasformando per la prima volta quell’ossessione terrorizzata per «la leche de otro» in realtà, quasi come se fosse sempre stata una richiesta, una speranza per sentirsi meno in colpa, o forse un brassiano ritorno della passione proprio nel montare della gelosia. Basta qualche foto tagliata in un raptus, basta una qualche lacrima di fronte ai brandelli della furia distruttrice, bastano un po’ di sincero pentimento e qualche pezzo di nastro adesivo. Basta una situazione presa in mano dal (non troppo) esterno della donna di servizio, che porta a lei le foto tagliate e a lui il vestito da tango strappato, che si presenterà dall’amante/distrazione di lui mai gelosa ma ferita nell’orgoglio dall’abbandono, e che messa in crisi reagirà sin troppo violentemente, mettendo un marito di fronte a una scelta di tenerezza assoluta che in realtà non ha mai avuto né volontà né possibilità di alternative. Bastano tre o quattro set e la maestosa regia di Arturo Ripstein, con il suo uso insistito degli specchi, con la sua spazialità di corridoi, oggetti e frange che scendono dal soffitto della balera, con la colonna sonora di tanghi e di variazioni sul Falling In Love Again di Friedrich Hollaender portata al successo nei ’30 da Marlene Dietrich, e soprattutto con la sua ironia surreale e irresistibile di reggiseni da annusare voluttuosamente, di situazioni assurde e di commenti acidi. Fino a ritrovarsi a chiedersi dolcemente scusa dopo l’ennesimo litigio, ancora una volta insieme quando all’improvviso torna l’intimità più inaspettata, e con lei il bollore dei corpi. O forse, quando quEl diablo entre las piernas si è definitivamente spento e i corpi non contano più ma basta semplicemente la loro presenza, quello delle anime e dei sentimenti. In salute e in malattia, a rileggere commossi quella «biografia» impossibile di rabbia e di affetto, ogni insulto un sospiro d’amore velenoso e tenerissimo.
Marco Romagna