31 Agosto 2023 -

EL CONDE (2023)
di Pablo Larraín

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La carriera del cineasta cileno Pablo Larraín si può dividere, finora, in due filoni ben delineati: quello dei lavori in patria, il più generalmente apprezzato e che gli ha donato lo status di autore internazionale, e la serie di biopic anglofoni/anglosassoni su grandi figure femminili pop del Novecento, che oltre a Jackie (su Jacqueline Bouvier-Kennedy-Onassis) e Spencer (sulla principessa Diana) avrà presto un capitolo ulteriore dedicato a Maria Callas, che sarà interpretata da Angelina Jolie e che vede l’inizio delle riprese fissato per il prossimo ottobre. El Conde, in Concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2023, sembrerebbe a un primo sguardo appartenere alla prima categoria, quella che batte bandiera cilena e che torna a parlare dell’infausto periodo del Paese quando, dopo il violento golpe militare dell’11 settembre 1973, al presidente socialista Salvador Allende successe una giunta guidata dal generale Augusto Pinochet, ma inserisce ancora una volta elementi anglofoni a far da contraltare. Una sorta d’interstizio dunque, di gioco con il genere realizzato anche per i ritardi e i continui rimandi dell’inizio delle riprese di Callas, e prima collaborazione con la piattaforma della grande N, sulla quale quest’ultimo lavoro si potrà trovare a partire dal 15 settembre – notizia che purtroppo non fa presagire finestre e tempi tecnici per organizzare una pur veloce uscita in sala, comunque non superiore a qualche giorno e solo nelle grandi città. Ma con quale genere si gioca, dunque? Con l’horror vampiresco e con la commedia nera, molto più con il primo che con la seconda a dir la verità: il Conte del titolo è proprio Pinochet, che nella realtà parallela dell’opera è ancora vivo ed è sulla Terra da circa duecentocinquant’anni, da quando il suo cognome era Pinoche, nobile imboscato tra i plebei durante la Rivoluzione francese per salvare il collo. Stanco, sfiduciato e convinto di meritare di più che il discredito generalizzato ormai associato alla sua figura storica, flirta con l’dea della morte confinato in una fazenda isolata nell’estremo sud del Paese, insieme alla moglie e al fedele maggiordomo (interpretato dal grande attore cileno Alfredo Castro, unica vera “star” del film). Un po’ alla spicciolata, vengono convocati i suoi cinque figli per cercare di dividere (e trovare) l’immensa fortuna accumulata negli anni in maniera truffaldina, dispersa e nascosta in mille rivoli. Ad aggiungersi al consesso, una giovane suora convocata come contabile dalla famiglia (??) ma che forse nasconde altri obiettivi…
Non ci addentriamo oltre nella descrizione dell’intreccio per non rovinare allo spettatore almeno un paio di colpi di scena, il secondo davvero ben assestato, ma, in sede di analisi, non possiamo che partire dalla delusione per un’opera che rappresenta, a nostro parere, il punto più basso della carriera del regista. Parliamo di un autore di talento che sa circondarsi di grandi collaboratori (citiamo per tutti la fotografia in bianco e nero del maestro Ed Lachman) e che quindi riesce comunque ad imbastire un pugno di sequenze da ricordare, soprattutto nei voli vampireschi di Pinochet e accoliti. Ma è proprio la scrittura questa volta a denunciare limiti e confusioni (il regista è anche autore della sceneggiatura insieme al sodale Guillermo Calderón), con passaggi narrativi e personaggi abbozzati, sgrossati più che delineati, e la voglia di dispiegare un (ulteriore) discorso sul Male e sul potere che non trova, a parere di chi scrive, nel tono e nella metafora scelti un felice connubio. Tanto più per un autore che, fra i vari Tony Manero, Post MortemNo, El clubNeruda aveva dimostrato di saper maneggiare la materia meglio di chiunque altro. Si piega ai propri scopi la mitologia legata alla figura del vampiro ma senza rispettarne i tratti caratteristici (Abel Ferrara e Jim Jarmusch avevano fatto molto meglio, con The Addiction e Solo gli amanti sopravvivono, anche da questo punto di vista): i succhiasangue non soffrono la luce del giorno, si riflettono negli specchi, possono essere fotografati e invecchiano un po’ alla volta, per poi fermarsi alla stessa età e aspetto per decenni quando riescono a nutrirsi di cuori freschi, meglio se di donne giovani. Certo, parliamo di un pamphlet politico che usa il vampiro come mezzo per un fine, ma le precise dimensioni del “world building” aiuterebbero a rinchiudere il tutto in una struttura dai contorni più delineati e precisi.

L’impressione è quella di un riassuntone delle nefandezze compiute da Pinochet ad uso e consumo delle nuove generazioni che non hanno vissuto/hanno dimenticato/non hanno mai studiato l’epoca, sia quelle cilene che dei 170 Paesi (si cita ironicamente Moretti, per chi non dovesse cogliere) in cui il film arriverà grazie alla piattaforma. La forma comicorrorifica (ma, lo ripetiamo ancora una volta, purtroppo si ride molto poco) è semplicemente lo zucchero messo ad indorare la pillola della divulgazione, dell’elencazione dei tanti misfatti in cui il leader era coinvolto, in maniera provata o presunta. È la funzione narrativa della suora/contabile nominata poco sopra, interpretata da una convincentissima Paula Luchsinger (già con il regista in Ema, membro dell’esplosivo corpo di ballo reggaeton), che assume anche il ruolo di rendicontare, fotografare, mettere in archivio, richiamando quello che tante associazioni umanitarie hanno fatto nel post dittatura per ridare nomi e volti alla migliaia di persone – il numero preciso non è mai stato reso noto – spietatamente uccise e buttate in fosse comuni o disperse in mare. Il maggiordomo interpretato da Alfredo Castro, e vampiro anch’esso, incarna proprio l’esecutore materiale freddo e senz’anima, estraneo al rigurgito di umanità che sembra incredibile non sopraggiunga davanti a massacri di questa portata. L’indignazione suscitata dalla totale impunità di Pinochet, morto ricco e in libertà, ha portato alla presentazione di quest’ultimo come una figura immortale, incombente, ciclicamente presente nelle nefandezze della Storia.
I richiami al grande cinema del passato (Tarkovskij, l’espressionismo tedesco, la suora ricalcata esteticamente sulla Giovanna d’Arco dreyeriana di Renée Falconetti) appaiono niente più che ami e agganci lanciati al pubblico cinefilo, estetismi di livello ma senza un gran costrutto a sorreggerli. Davvero ci sembra un film di difficile collocazione nel catalogo di una piattaforma, col rischio di scomparire presto nei meandri di un algoritmo e di un catalogo che privilegia ALTRI titoli e che rischia di scontentare tutti, appassionati dell’horror, del grottesco, del cinema d’impegno civile. Davvero fastidiosa, poi, appare l’omissione totale del ruolo di Kissinger, Nixon e degli Usa per la riuscita del golpe, poi estesosi a tante altre nazioni sudamericane, Argentina su tutte, sempre in un contesto fortemente antisocialista e comunista; in un film che allarga, e giustamente, la maglie delle responsabilità oltreoceano, fino alla Gran Bretagna, ci sembra quasi un “favore” concesso alle produzioni a stelle e strisce, con cui il regista sta lavorando, ha lavorato e lavorerà ancora. Larraín, intendiamoci, ha una storia professionale e artistica alle spalle che fuga ogni tipo di dubbio sull’onestà intellettuale delle sue invettive, ed è proprio per questo che si rimane ancora più sorpresi di fronte ad omissioni che di sicuro non arrivano da approssimazione o scarsa conoscenza del tema. I suoi vezzi d’autore, o per meglio dire la sua poetica, sono riconoscibilissimi anche in El Conde: i dialoghi/intervista con inquadratura frontale, il continuo susseguirsi e alternarsi di forme di oppressione diverse ma uguali che già era la base portante del discorso di No – I giorni dell’arcobaleno, con la dittatura di Pinochet sconfitta e soppiantata da un’altra, più subdola e parimenti pericolosa, quella del marketing e della pubblicità, e tanto altro ancora che lasciamo scoprire agli aficionados larrainiani…
In conclusione, l’impressione è quella di trovarsi davanti ad un film scentrato e poco a fuoco, che nella foga di dire tanto sbaglia tempi e modi, allontanando lo spettatore invece di avvilupparlo ed appassionarlo. Chi scrive ricorda ancora le incalzanti progressioni e la pelle d’oca sul finale dei film del regista incontrati ai festival, l’indimenticabile proiezione cannense di Neruda e i brividi lungo la schiena uscendo dalla sala Darsena, qui a Venezia, dopo le proiezioni di Jackie e Ema: questa volta il finale è frettoloso e non sorprende, si fa intuire molto presto e lascia un senso d’incompiuto. Intendiamoci, è un film che può piacere anche molto e che invitiamo comunque a toccare con mano, ma non possiamo che avvertire i nostri lettori riguardo al senso di profonda delusione che ancora oggi, a un giorno di distanza, ci ritroviamo addosso e che stenta ad andar via. Davvero ci sembra di essere una delle vittime del Conte, con il cuore strappato e frullato ancora pulsante. Che fosse proprio questo l’obiettivo? Si scherza, naturalmente, e non si può che aggiungere un giallo al semaforo per quel pugno di sequenze esteticamente e tecnicamente straordinarie presenti anche qui, e che ci fanno attendere il prossimo film del regista cileno con più attesa del solito, vogliosi come siamo di tornare ad amare senza riserve quello che era, e rimane, uno dei più grandi cineasti del XXI secolo.

Donato D’Elia

“El Conde” (2023)
110 min | Comedy, Fantasy | Chile
Regista Pablo Larraín
Sceneggiatori Guillermo Calderón, Pablo Larraín
Attori principali Alfredo Castro, Paula Luchsinger, Gloria Münchmeyer
IMDb Rating N/A

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