IL CITTADINO ILLUSTRE (2016), di Mariano Cohn e Gastón Duprat

La Sala Blu del Municipio di Stoccolma è riunita per la manifestazione di consegna dei premi Nobel. A ritirare l’ambito riconoscimento, per la letteratura, sale sul palco lo scrittore argentino Daniel Mantovani, e il suo discorso paralizza tutti: i fini letterati, i più illustri scienziati, i principali accademici mondiali, persino il re di Svezia. Nel ringraziare per il premio, Mantovani dichiara che il solo fatto di essere stato in considerazione per il Nobel non farebbe più di lui un sovversivo: ormai piace al pubblico e piace alle commissioni, che premiandolo ne avrebbero in sostanza dichiarato la morte artistica. Sono passati solo pochi minuti dall’inizio della proiezione stampa di El ciudadano ilustre, letteralmente Il cittadino onorario, opera quarta dei registi argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat in concorso a Venezia73, quando la Sala Darsena esplode in quell’applauso negato all’oratore dall’uditorio raggelato della finzione cinematografica, dichiarando fin dall’incipit il feeling subito trovato con la comicità algida – pronta in seguito a dissolversi in un cappio tragico che si stringe intorno al collo del protagonista – del duo di cineasti sudamericani. El ciudadano ilustre, negli abiti apparentemente scanzonati e senza particolari pretese di una commedia che vira in tragedia, nasconde riflessioni non banali sull’appartenenza culturale, sulla riscoperta delle proprie radici, sul ruolo dell’arte e dell’artista, sull’incomunicabilità e sul (doppio) rifiuto. Non è un gran film, né vuole esserlo, ma è senza dubbio un prodotto divertente, genuino e sincero che sa essere intelligente senza (finalmente) porsi come pretenzioso, un film – al netto di eventuali premi che lo sopravvaluterebbero – pienamente degno di un passaggio nel concorso della Mostra. Ed è un film che nasconde anche una piccola vendetta, nel folgorante punto di partenza in medias res che tanto entusiasmo ha suscitato negli accreditati presenti: l’Argentina non ha mai vinto un Nobel per la letteratura, più volte negato a Borges, e tocca (per ora) alla finzione mettere fine a questa piccola grande ingiustizia.

El ciudadano ilustre prende le mosse dal personaggio di Daniel Mantovani, dipinto come schivo, ritiratosi il più possibile a vita privata e lontano da decenni dalla nativa Salas, paesotto a oltre 700km da Buenos Aires, convinto cosmopolita e residente a Barcellona. Eppure, nella sua narrativa, ha sempre scritto di Salas e non dell’Europa, delle sue radici recise con un’accetta come unica ancestrale fonte d’ispirazione. Giunge un invito dal sindaco della città: gli viene offerta la cittadinanza onoraria e un corso da tenere per i cittadini, l’occasione per tornare a casa, el pueblo. Da questo semplicissimo snodo di trama, Cohn e Duprat lasciano esplodere la loro irresistibile carrellata di personaggi e situazioni ai limiti del paradossale – il corpulento autista che va a prendere lo scrittore in aeroporto a Buenos Aires, buca una gomma della Panda e, bloccato senza cellulari sullo sterrato in attesa che passasse qualcuno, usa le pagine di un libro di Mantovani prima come accendifuoco e poi come carta igienica; gli inevitabili snodi amorosi con l’amata di un tempo, il migliore amico diventato nel frattempo il di lei marito e la (molto) provocante figlia della coppia; le manfrine di un sindaco limitato e cerimonioso con tanto di geniale filmato di benvenuto che lascia esplodere tutta la passione dei registi per l’elemento trash e giri trionfali sul carro dei pompieri –, fino a instillare progressivamente il tragico come un imbuto che stringe e blocca lo scrittore, fra le accuse mosse contro Mantovani da un artistoide locale per aver tradito la sua cultura e una presenza sul territorio che da reciproco onore diventa sempre più fastidio, come il pesce che dopo qualche giorno finisce inevitabilmente per puzzare. Il film di Mariano Cohn e Gastón Duprat è il rapporto intenso e burrascoso fra l’artista e il suo pubblico, è la necessità di rimettersi costantemente in gioco e in discussione, è l’importanza della contestualizzazione, perché “anche i capolavori di Leni Riefenstahl nascono come film di regime”.

Mantovani non è affatto a casa, ma è un ospite ben presto a disagio e sgradito. La quiete è semplicemente un silenzio di comodo fra animali in gabbia che si guardano in realtà in cagnesco, è l’ipocrisia della società, è quel paradosso sul quale il discorso alla consegna del Nobel voleva puntare il dito. Ecco quindi che volano uova, che si imbrattano statue, che si restituiscono medaglie, che si progetta la fuga in segreto, che vengono tirati i grilletti. El ciudadano ilustre, nelle sue risate amare, è l’incomunicabilità, è l’impossibilità di riabbracciare ciò con cui si è consapevolmente scelto di tagliare i rapporti e che invece ancora reclama come proprio e vuole ancora rimasticare, fino a sputare ancora una volta. Ed è anche, dall’altra parte, la totale mancanza di voglia di ritrovarli, questi legami, al di là di una vacanza immaginata e tragica: Daniel Mantovani, in coscienza, ha davvero tradito la sua terra e diffamato la sua gente, ma con il ritorno anziché sentirsi in colpa si rende conto di quanto bene abbia fatto a recidere quelle radici prima che lo tenessero invischiato nel provincialismo paesano. Il padre è ormai una nuda lapide al cimitero, la vecchia casa è diventata una bottega di barbiere, non c’è più nulla di quei tempi, nulla, solo il reciproco rancore, solo una distanza insormontabile, solo l’incapacità di evolversi. E allora è tempo che la verità si palesi come interpretazione e rappresentazione, è tempo che Mantovani si riveli come alter ego di se stesso, è tempo che il volto giusto si presenti davanti ai microfoni a parlare della necessità del proprio egocentrismo e a dichiarare l’impossibilità di un ritorno se non nella letteratura. La differenze sono di classe, stanno in una cultura che non appartiene più, si palesano in diffamazioni e gelosie: di questo parlano Mariano Cohn e Gastón Duprat fra le sonore risate della loro opera più ambiziosa. Perché, per quanto Mantovani lo neghi, le migliori opere nascono dal reale disagio di chi le crea, e non è certo con l’ostinato provincialismo, né tantomeno con l’ipocrisia di una quiete sociale forzata, che l’Argentina potrà andare a vincere per davvero i premi Nobel.

Marco Romagna

edit: Vincitore della Coppa Volpi per Oscar Martinez, migliore interpretazione maschile a Venezia 73