EL AUGE DEL HUMANO 3 (2023), di Eduardo Williams
“L’apogeo dell’umano”. Questo era il titolo del primo lungometraggio dell’argentino Eduardo Williams, vincitore di Cineasti del Presente 2016, e questo è il titolo del suo sequel – o anzi, ironicamente, il suo paradossale ‘tre-quel’. Non esiste un El auge del humano 2: Williams, quando viene intervistato a riguardo, dice che è perché forse il 2 esisterà in futuro, magari tra vent’anni, o anche che questa scelta lascia uno spazio invisibile e immaginabile tra i due film, dato che non c’è un collegamento diretto (il 3 a posteriori sembra quasi una battuta, che rievoca o i 360° del VR, o il 3D). Del resto non è cinema narrativo che si rifà alla prosa dei romanzi, ma cinema sperimentale sul linguaggio del digitale, insomma, una bestia che muta forma. Ogni mese, ogni anno. Le innovazioni tecnologiche ci sono sempre, e spesso non concernono direttamente il cinema. Se El auge del humano era uscito all’inizio di un periodo di crisi1, El auge del humano 3 nasce in un periodo in cui quelle paure si sono concretizzate, sono peggiorate, e l’immagine digitale si è espansa fuori dal cinema in modi che anche meno di un decennio fa erano imprevedibili. Questa espansione del digitale tuttavia non è il ‘cinema espanso’ di Gene Youngblood, non è l’estasi herzoghiana, e non è una qualche trascendentale e ideale esplosione dei sensi lirica o punto d’arrivo per quello che noi appassionati (e solo noi appassionati, che amiamo il cinema fino a odiarlo) chiamiamo ‘film’ a prescindere dalla presenza o meno di celluloide. È il Metaverso, è la Realtà Virtuale, la chat-room, la teoria della simulazione, come potrebbe essere l’AI, TikTok, i filtri di Instagram (contemplati nell’ultimo, splendido e attualissimo film di Radu Jude, concorrente di Eduardo Williams nel Concorso ufficiale del Festival di Locarno 2023). L’«apogeo dell’umano» è una nuova immagine, un tipo di immagine su cui il pubblico del cinema è spaccato in fazioni. È nuovamente giusto che la crisi sia affrontata, che nuovi argomenti vengano approfonditi sul grande schermo, e che vengano date nuove direzioni a queste nuove immagini, che siano ricontestualizzate, rifinite e finalizzate.
Innanzitutto, mi sembra giusto sottolinearlo, lo spazio qui non sarebbe sufficiente per sviscerare i temi e le origini alla base della crisi dell’immagine e del cinema. Ma dovendo tuttavia affrontare le tematiche investigate da El auge del humano 3, che di certo non è un film chiaro o lineare o “facile”, posso darmi lo spazio di teorizzare. Mettere su carta, ma senza carta, riflessioni e ipotesi, in pixel neri su bianco, che quando verranno messi sul sito saranno neri su grigio. Questo, per sintetizzare con distacco quello che sto facendo nello scrivere del film. Per sintetizzare con distacco invece quello che fa un regista nel farlo davvero, un film per quanto in digitale, si potrebbe dire: imprimere su pixel uno spazio mentre si è in quello spazio, pixel che poi saranno ricostruiti e rivissuti nella sala, e impressi nel nero e nel buio solenne della visione nel cinema. E di rado si vedono dei film consapevoli di questo modo di vedere le cose quanto El auge del humano 3: passeggiate dispersive nei luoghi più disparati, tra aeroporti taiwanesi e giungle sudamericane, sono il perno della maggior parte della visione, luoghi più reali del reale, che sono giganteschi al cinema nonostante la qualità sgranata e distorta dell’immagine. Eppure, i luoghi sono finti. No, non sono finti perché lo sono per noi pubblico (ovvero poiché sono stati inscenati per la sala): sono finti perché nell’intreccio del film, per i suoi personaggi, questi luoghi sono finti. Non è mai raccontato esplicitamente (appunto 1: defenestrare la prosa), ma dai lunghi e surreali dialoghi tra i personaggi del film si evince che c’è un’apocalisse nel mondo reale, la diffusione di una malattia causata dall’inquinamento, dicono, ma ovviamente ci vengono in mente il Covid e il riscaldamento globale. «Le persone che conosciamo stanno morendo», viene detto più volte. Ma perché allora i nostri protagonisti invece vagano tranquilli in questi luoghi bucolici, e se c’è una pioggia spaventosa invece di chiudersi in casa se ne lamentano come se fosse una minima sconvenienza? Altro dato non esplicito (appunto 2: rompere la realtà) è che questo mondo è tutto digitale, simulato, virtuale. Si va oltre la teoria complottista della simulazione per cui noi tutti siamo identità interrotte del digitale, perché viene immaginata la possibilità di comunque inventarlo, crearlo, il mondo intero digitale, anche solo suggerendolo, che è il perno del film. El auge del humano 2 non esiste perché questo ‘trequel’ è già post-apocalittico, distopico, e c’è ancora spazio per raccontare nello specifico l’apocalisse, la nascita della distopia dalla quale in questo film si è già fuggiti. Qui, in questo Metaverso paradisiaco, si può volare, si può glitchare, si può ballare, ci si può innamorare, ed è tutto vero, ed è tutto finto. Andare dai Paesi Bassi allo Sri Lanka si può fare con la stessa nonchalance con cui si passa da una storia di Instagram all’altra, con la stessa regolarità con cui adesso premerò “a capo”.
L’overdose di immagini è un altro dato da tenere sempre in considerazione quando si parla di film dei nostri tempi, soprattutto questi così sperimentali, come di qualsiasi arte figurativa contemporanea: nell’epoca del bombardamento mediatico (appunto 3: l’impigrirsi del pubblico genera mostri, per fare resistenza nel cinema dilatare i tempi) manca la meditazione, e persistono la crisi esistenziale, la sempre più flebile area di transizione tra i nostri schermi e la vita reale, il postmodernismo coi suoi ulteriori mostri, o l’hauntology di Derrida rievocata da Mark Fisher, l’eterno fantasma dello stato delle cose che diviene bandiera dell’essere contemporaneo, tra le ipocrisie delle nuove forme culturali. Come si può in questo mondo nuovo, che si sta schiudendo e realizzando, trascinare lo spettatore dentro un film? Esclusi i movimenti sismici che sta facendo adesso il mercato del cinema hollywoodiano mainstream nel tentativo disperato di autofagocitarsi senza rivoluzionarsi radicalmente, c’è “solo” l’innovazione tecnologica. Ed Eduardo Williams lo sa. El auge del humano 3 è stato girato con una tecnica inedita (appunto 4: conoscere il mezzo per far evolvere il messaggio), utilizzando una cinepresa che gira a 360° con otto lenti adatta alla Realtà Virtuale, tradotto in un formato widescreen cinematografico in base a cosa Williams voleva vedere quando ha visualizzato le riprese con il visore VR addosso. Ciò porta a immagini che dovrebbero essere totali ma sono decentrate, deformate. Il cinema ha espanso le sue direzioni, ma l’individuo ancora sceglie cosa vedere.
El auge del humano 3, si sarà colto, non è un film facile, e la prima ora abbondante, pur colma di momenti di interesse, può spaventare molti spettatori per il suo ritmo e l’apparente distacco verso i protagonisti. La sua prolissità diventa perdonabile, soprattutto quando ci si rende conto di quanto in realtà Williams voglia bene ai suoi personaggi, amici che vengono da tutte le parti del mondo e che si uniscono, in una ritrovata speranza e desiderio di conoscere se stessi e gli altri, proprio attraverso questo mondo irreale di transizione. Ci si può incontrare insieme in un punto di rottura solo se si è al punto di rottura. «Non ci credo ancora che stiamo parlando di quando saremo vecchi», si dicono. L’apocalisse è stata evitata non dalla collettività ma dai singoli individui (appunto 5: in momenti di crisi non si può fare una rivoluzione, in momenti di crisi contemplare e sperare e darsi nuove forme). Si possono ancora esplorare infiniti luoghi e infinite possibilità. Il dialogo da chat nei social, che in una situazione dal vivo sarebbe destabilizzante, viene real-izzato. Quando si fa log-out per qualche momento, si sviene per terra. Ci si perde alla ricerca di qualcosa che potrebbe non vedersi mai, come nella giungla di Leones (2012) della connazionale e quasi coetanea Jazmin Lopez: l’assenza impressionista di una direzione diventa la direzione, sicché anche la distopia possa dar vita a reali connessioni umane.
La parte finale del film è di gran lunga la più interessante – è la più facile da interpretare, eppure la meno dialogata, e vi aleggia un’aura di mistero. Dopo una serie di inquadrature montate velocemente l’una dopo l’altra, in modo totalmente anomalo rispetto alla dilatazione dei tempi di tutto ciò che l’ha preceduta, arriva una lunga inquadratura fissa di un paesaggio nella giungla: un fiume, parzialmente impallato dalle foglie di un albero tropicale, e una barchetta di legno appoggiata alla riva. A volte si intravedono corpi che si muovono attorno ai bordi dell’immagine, in sottofondo, e il massimo dell’azione in campo avviene quando una scimmia scende da un albero, si avvicina alla barca, e di nuovo scompare tra le frasche. Dopo svariati minuti, la camera comincia a girare di 360° in modo costante, fino anche a distorcere i bordi dell’inquadratura, sempre di più salendo verso il cielo senza smettere di roteare, generando un paradosso di pixel che si incontrano in un mandala di dati, un turbine di luce. Si prova a entrare in questa allucinazione con uno zoom in montaggio infinito, e ancora di più si rarefà la realtà. La barca va sul fiume con a bordo i nostri protagonisti, e di nuovo sembra di vedere lo schermo riaprirsi. Siamo nell’ennesimo sterminato piano sequenza di passeggiata nella natura, ma qualcosa è diverso: la cinepresa, pedinando la lunga scalata di una montagna, stavolta ci rende partecipi, ci immerge nella camminata. Scaliamo insieme alla macchina da presa, col prato che si distorce sul lato inferiore dell’inquadratura. Ci sono anche i nostri personaggi, in fondo, e l’immagine, coi suoi tempi, li raggiunge. Hanno un punto d’arrivo fissato, ma quando vi arrivano la strada continua, e come Sisifo proseguono a prescindere. La missione va avanti. Il finale (che non rivelerò) nuovamente scardina e radicalizza il senso dell’immagine prima, e della macchina da presa stessa poi. In questa parte finale, grande cinema: dal paesaggio vuoto dell’anima alla James Benning alla psichedelia, fino alla contemplazione del reale che di nuovo si scardina (e si prende anche un po’ in giro) come a chiederci: come vi siete sentiti? A cosa avete assistito? Durante la visione eravate all’apogeo dell’umano o eravate ai suoi piedi?
E soprattutto: dove siete adesso? L’innovazione tecnologico-informatica è anch’essa una tragedia sisifea, una cavalcata all’infinito verso porte sbattute e infiniti errori che hanno compromesso e comprometteranno, è inevitabile, le vite di migliaia di persone. Dove siamo adesso? L’anomalia che è El auge del humano 3 ci sposta fuori dal nostro luogo d’appartenenza, ci chiede se le persone con cui parliamo online sono con noi nel mondo reale o se lo saranno mai davvero. Dove siamo adesso? Non stiamo brancolando tra vite vuote cercando animali o semi come nei primi corti di Eduardo Williams (Pude ver un puma, 2011, e Que je tombe tout le temps?, 2013), non stiamo fingendo di essere qualcosa che non siamo come i ragazzi nelle webcam gay del primo El auge, ma siamo ancora eterni, moderni e primordiali insieme. Dove siamo adesso? Io sono di fronte a uno schermo con dei pixel neri su bianco, e dentro questo film, e in una cucina, e nello schermo del cellulare qui accanto che mi ricorda che ora è, e nella luce al tungsteno sulla parete di fronte, e nella mia testa, e dentro questo film di nuovo. Dove siamo adesso? E perché non stiamo scalando una montagna?
Nicola Settis