EL AÑO DEL DISCUBRIMIENTO (2020), di Luis López Carrasco

Anno corrente 1992. Se l’Italia è impelagata nel grande scandalo di corruzione che libera la via del potere a Silvio Berlusconi (e a molti altri scandali), in Spagna invece si celebra l’avvento del benessere dopo la delicata fase della transizione alla democrazia e le movide artistiche degli anni ‘80. Sancita l’appartenenza all’Unione Europea col trattato di Maastricht dello stesso anno, la penisola iberica si avvia a un futuro radioso e all’agognato status di paese moderno, da mostrare al mondo attraverso l’immagine dei festeggiamenti dei cinquecento anni dall’inizio del siglo de oro. Gli eventi clou di questi anni ruggenti sono le Olimpiadi di Barcellona – ormai possibili grazie alla morte di Franco – e l’Expo di Siviglia, fiera che ha lasciato in eredità un quartiere fantasma sulle sponde del Guadalquivir. Con El año del descubrimiento Luis López Carrasco si prende il compito di scardinare questa narrazione egemone – e di spostarne l’asse geografico – per raccontare la vita quotidiana di Cartagena, una cittadina operaia nella comunità autonoma di Murcia alle prese con un sistema di smantellamento industriale che ha colpito in maniera clinica tutta l’Europa del Sud, sconvolgendone relazioni sociali, archiviando competenze professionali e spazzando via ogni residuo di comunità.
Il film, nella selezione del 49mo Festival di Rotterdam, inizia con la voce fuori campo del proprietario bar La Tana che racconta di un ricorrente sogno di morte, dal forte valore premonitore, che lo vede nella sua vecchia scuola ad assistere alla morte dei propri amici e parenti. A partire da questo spazio si dipanano una serie di conversazioni prettamente politiche in cui gli avventori del bar, che ha ormai chiuso i battenti, affrontano i cambiamenti avvenuti in seno alla società spagnola negli ultimi trent’anni, dal declino post-industriale alla crisi finanziaria del 2008. Fino a qui niente di nuovo, a parte l’acuta coscienza politica dei protagonisti, una sorta di populismo rovesciato che si agita in un mondo dove lo spettro che s’aggira è quello macabro del fascismo franchista. Un fantasma quest’ultimo che torna a visitare costantemente sia l’attualità spagnola – vedi le percentuali elettorali a doppie cifre del partito neo franchista Vox nella vicina Andalusia – che la sua cinematografia recente, dal documentario El Silencio de Otros (Almudena Carracedo e Robert e Robert Bahar, 2018) al noir El crack cero di José Luis Garci, anch’esso presentato al Festival di Rotterdam di quest’anno.

La parte centrale del secondo lungometraggio del regista murciano classe 1981 ripercorre gli anni della repressione franchista, un potere che paradossalmente proteggeva i cantieri navali della zona dai capricci del mercato globale. Il passato franchista quindi, ancora molto dirimente, si fa spartiacque ambiguo della storia spagnola – arrivata al progresso economico con un ritardo di vent’anni anni – che Carrasco affronta con intelligenza, opponendo all’apologia nostalgica del ‘quando c’era lui’ sovranista, l’Ay Carmela cantato dagli operai nelle strade in rivolta della Cartagena del 1992 e nei cinema di tutta la nazione qualche anno prima, grazie all’omonimo film di Carlos Saura. La chiusura delle tre grandi fabbriche che sostenevano la città – ultimo bastione repubblicano a cadere in mano nazionalista – provoca una serie di sommosse che culminano nell’incendio del Parlamento della Comunità Autonoma di Murcia. L’incendio diventa la catarsi del film. Gli eventi sono ricostruiti con pazienza e a più voci, da tre ore e venti di filmati d’archivio che si confondono con le immagini di un presente depresso in un tempo in cui le infinite discussioni al bar ruotano intorno al conflitto sociale, alla sua assenza, alle forme che ha preso e che dovrebbe prendere.
Dalla macchina da presa emerge quindi un trattato socio-politico di ampio spettro, uno spaccato dall’afflato enciclopedico di questa piccola città di porto mediterranea che ne vale mille: Carrasco ne rivela i gesti del lavoro, le abitudini quotidiane degli avventori, interrogando storici, operai, sindacalisti, ispettori di polizia, quadri del partito comunista e concedendo il tempo necessario alla narrazione di circostanze economiche e sociali molto complesse. Un racconto di classe che non solo si fa arma teorica contro le politiche ultra-liberiste e sempre più crudeli dell’Unione Europea ma trasmette la memoria storica necessaria a capire gli errori fatti in passato. Quello che fa di questo case-study atipico e universale un film dal linguaggio personale sono le scelte artistiche: l’estetica video HI8 tipica di quei disperati anni 80 post-riflusso e lo split screen costante, nel quale l’associazione delle immagini riflette in maniera sublime la dialettica di cui tutto il film è pervaso. In questa specularità, le parti si alternano in scontri – i conflitti sociali, la lotta degli operai contro il capitale cieco, la scelta tra lavoro e ambiente – e confronti – quello tra passato e presente, tra parole e gesti, tra generazioni, tra sessi – creando un’opera tesa alla riscrittura collettiva della storia e ad una profonda analisi sociale del presente. Piuttosto che un film sulla lotta, El año del descubrimiento è un film di lotta. La bellezza sta tutta in questa sottile differenza.

Roberto Oggiano