«Nell’esercito non c’è spazio per le checche, è come mettere un pedofilo in un asilo», ridacchiano dal tavolo ufficiali guardando la recluta Falak, giovane soldato di origine serba e dichiaratamente omosessuale nell’ambiente forse meno omosessuale di tutti. Tanto che nessuno a quel tavolo aveva mai minimamente potuto sospettare come anche fra di loro, al di sotto della scorza efferata dell’istruttore più duro e intransigente Charles Eismayer, si potesse nascondere da sempre il medesimo segreto, relegato come una colpa all’oscurità delle notti insonni mostrando invece a ogni sole il lato più ‘maschio’ e feroce del soldato di ferro. Nemmeno sua moglie e suo figlio si erano mai resi conto di nulla, come tutti gli altri ingannati in una vita passata a dissimulare fino al parossismo, a nascondersi, a fingere di essere «guarito» da quelle pulsioni giovanili per le quali, al tempo, i genitori lo avevano obbligato alla “medicina” di testosterone e regole ferree dell’arruolamento con cui «diventare uomo». Fino a ergersi a novello Sergente Maggiore Hartman austriaco, che durante i percorsi di addestramento incarna consapevolmente tutti i cliché delle gerarchie militari, del machismo a ogni costo, della più totale disciplina, dei signorsìssignore pretesi sull’attenti, degli ordini più assurdi sbraitati in faccia, delle umiliazioni con cui trasformare i giovani soldati in perfette macchine da guerra. Del resto è palese e dichiarato il riferimento iniziale a Full Metal Jacket di Eismayer, eccellente esordio di David Wagner che trova la sua prima mondiale nella 37ma Settimana Internazionale della Critica a Venezia 2022 e che sarà distribuito su piattaforma con il titolo Bersaglio d’amore. C’è la sequenza di ispezione degli armadietti in cui far riecheggiare lo scontro iniziale con Palla di Lardo, c’è la costante violenza psicologica nei confronti delle reclute che sfocia nel dolore fisico quando i presentat-arm coreografici non riescono perfettamente all’unisono o quando nel campo d’addestramento gli esercizi si fanno ancora più duri e quasi sadici, ci sono le flessioni con cui punire ogni minimo difetto o ipotetico accenno di insubordinazione (beccando puntualmente ogni linea di dentifricio ingoiata per farsi venire la febbre), e c’è perfino la stessa musichetta di «Ho Chi Minh le pippe si fa…» su cui cantare tutto il fallocentrismo dell’esercito durante le corse d’allenamento. Ma proprio dove il capolavoro kubrickiano, nella seconda parte, si spostava dal campo d’addestramento al dolore mortifero della guerra, Eismayer sceglierà invece di rivelare la sua dolce natura di film d’amore, più forte di ogni convenzione, più forte di ogni emarginazione, più forte di ogni sessismo. Un film che (ri)mette in scena la purezza di un sentimento, quello fra Eismayer e Falak realmente esistenti, realmente soldati e realmente convolati a nozze civili nel 2014, che nasce come un’attrazione fatale (im)possibile (e quindi come un inevitabile scontro, di rango e generazionale) e che invece progressivamente non potrà che deflagrare tenero e profondissimo in una passione che dichiarare e rendere pubblica è stato forse il più estremo atto di coraggio nelle loro carriere militari, la rottura definitiva di ogni gabbia e di ogni convenzione, una vera e propria rivoluzione all’interno del più maschile e maschilista (e pure un po’ razzista, con Falak ripetutamente preso di mira anche per la sua origine bosniaca) fra i possibili mondi.
Del resto, da buon ufficiale dell’esercito, è lo stesso Eismayer il primo a considerare la propria omosessualità incompatibile con il mestiere e forse il concetto stesso di soldato, e anche per questo la nasconde fino a diventare un’icona eteronormativa, tanto rigido e perfezionista che perfino i superiori gli chiederanno di ammorbidire i suoi metodi – «non siamo più negli anni Ottanta». Come se vivesse da sempre in un eterno inverno, con la sua intimità ridotta a un tarkovskiano palazzo in rovina costantemente ricoperto da uno strato di neve bianchissima e gelida che nemmeno qualche fugace e segretissimo incontro notturno può in alcun modo dissipare. Una coltre destinata, però, a farsi progressivamente meno spessa fino a sciogliersi nel calore inspiegabile dell’amore. Dall’attrazione alla persecuzione, dalla punizione al desiderio, dall’incontro nelle docce al primo bacio e poi via fino agli anelli, fino all’arrivo di una primavera di colori e profumi che Eismayer nella sua vita di vergogna e menzogne mai e poi mai avrebbe considerato possibile. Prima l’umanità che emerge improvvisa – «dai che ce la fai. Non vorrai mica essere considerato un ricchione cacasotto» – quando Falak si blocca nel panico e non riesce a guadare il fiume camminando sul filo, poi quel moschettone che si apre finendo insieme in acqua, e poi l’invito a casa per guardarlo dormire, fino all’inevitabile esplodere della passione, all’improvvisa malattia di Eismayer, al ribaltarsi dei ruoli in una cura reciproca in cui sarà Falak quello che sprona l’amato a guarire, impartendo ordini, dispensando attenzioni, invocando disciplina, intimando all’ex istruttore di non arrendersi. Sarà però l’innocenza ancora priva di malizie e sovrastrutture dell’infanzia il vero e necessario grimaldello per sbloccare Eismayer, sarà la perfetta “normalità” che il suo bimbetto vede nell’avere amici maschi con cui condividere i giochi e le emozioni. È nel loro magnifico dialogo al parco che sta la vera risoluzione del conflitto generazionale, il cambio di prospettiva del protagonista su un mondo che pensava non potesse in alcun modo «funzionare così», il definitivo rendersi conto della profonda codardia della sua vita di finzione contrapposta alla profondità del coraggio con cui il giovane Falak non ha mai avuto intenzione di nascondersi. La fine improvvisa di un atavico imbarazzo e senso di inadeguatezza imposto da una visione del mondo ancorata al passato, che non potrà che montare in quell’ardimento con cui finalmente esporsi, correre a dichiararsi in mezzo a tutti i commilitoni dell’accademia ufficiali, vivere la propria identità di soldato queer e il proprio sentimento viscerale per l’uomo che per la prima volta davvero ama e dal quale si sente forse per la prima volta davvero amato. Un percorso di formazione che David Wagner, dopo un lavoro di preparazione lungo anni, mette in scena sì con una ben precisa vis politica, ma soprattutto con una straordinaria delicatezza, bene attento a non scivolare mai nella retorica o nel semplicistico, bene attento a tenere sempre al centro il cuore del protagonista, i suoi turbamenti, la difficoltà esistenziale nel far convivere la sua doppia anima, e poi il suo definitivo lasciarsi andare, accettarsi, vivere felice la propria vita e la propria natura. Fino a quel bacio teneramente scambiato dai veri Eismayer e Falak sul red carpet veneziano che rimarrà come uno fra i momenti in assoluto più belli dell’intera edizione della Mostra, tutti e due nel bianco sgargiante dell’alta uniforme, tutti e due orgogliosi e felici, tutti e due consapevoli di come la loro storia personale sia un qualcosa di cui un intero sistema aveva, e continua ad avere, una necessità sempre più urgente. Ma soprattutto tutti e due innamorati come se fosse ancora il primo giorno.
Marco Romagna