EIGHTY PLUS (2025), di Želimir Žilnik

A tradurlo dal serbocroato vuole dire letteralmente “Restituzione, o, sogni e realtà della vecchia guardia”, il titolo originale Restitucija, ili, San i java stare garde (semplificato scegliendo per i mercati internazionali Eighty Plus) con cui il leggendario Želimir Žilnik, cinquantadue anni dopo l’Orso d’Oro ottenuto con il suo esordio Early Works che diede di fatto inizio alla breve e straordinaria Onda Nera Jugoslava, torna ancora una volta dietro alla macchina da presa e alla Berlinale, questa volta nella parallela sezione Forum. Non è in alcun modo un caso, però, che il titolo provvisorio utilizzato durante tutta la fase di lavorazione del film fosse proprio Sloboda ili barbarizam, ovvero “Libertà o Barbarie”, come a dire che il socialismo originale termine di paragone non c’è più, ma la barbarie è rimasta immutata anche e forse soprattutto in quella promessa di libertà rivelatasi nient’altro che una maschera falsa e ipocrita, sotto la quale il capitalismo cresceva e si radicava fino al momento in cui non ha più avuto bisogno di dissimulare la spietatezza della propria sostanziale neodittatura. Del resto, ben al di là della (già di per sé magnifica) ode dolce, divertentissima e piena di vita che l’autore, ormai a sua volta ottantaduenne, dedica in forma di commedia agli ottuagenari e al fiato tutt’altro che corto delle loro prospettive, è nel tirare una sorta di bilancio del Novecento con cui continuare a scandagliare e a denunciare, attraverso l’ironia e il parossismo, le infinite contraddizioni e la pletora di promesse economiche e sociali non mantenute della (ex) Jugoslavia e dell’Europa tutta che Restitucija permette a Žilnik di tornare agli apici della sua viva, caustica intelligenza e della sua disillusione politica. Attraverso un costante confronto di corsi e ricorsi fra ieri e oggi che si innestano naturalmente nella narrazione, con i ricordi (non solo musicali, e non necessariamente nostalgici ma nemmeno necessariamente critici) non solo della Jugoslavia socialista – della quale per primo il regista non aveva tardato ad attaccare e ridicolizzare, tanto più dopo le repressioni del Patto di Varsavia alla Primavera di Praga e i ripetuti tradimenti della dottrina marxista, le sempre più evidenti storture dell’apparato statale – e successivamente della Serbia, ma anche dell’Unione Sovietica, della Germania, dell’Austria e della Svizzera cambiate nel corso dei decenni sotto gli occhi e le quotidiane esibizioni del protagonista, contrapposti a un’odierna burocrazia che a ben vedere non sembra poi così tanto meno iniqua fra errori catastali, perizie psicofisiche e richieste di risarcimento per ottenere un proprio diritto. Ma anche con una vecchia Lada che ancora cammina dagli anni Settanta contrapposta a un post-comunismo che, dopo avere illuso giurando libertà e ricchezza, ora non si fa il minimo problema a lasciare in mezzo a una strada una madre e un padre giovani con tre figli. Con la tenera vitalità di una vecchia jazz band che si ritrova per tornare a suonare insieme dopo più di cinquant’anni contrapposta a un bambino che non ha un letto su cui saltare a meno che qualcuno non presti prima una casa (con o senza luce, con o senza acqua, quello che conta è un tetto) ai suoi genitori. Con gli interessi personali di quasi tutti i componenti (anche acquisiti) di una famiglia che si fa di serpenti per ottenere una propria parte, contrapposti a quegli unici «angeli» innocenti che invece vorrebbero solo poter vivere in pace la propria esistenza familiare. È per questo che gli ottantenni, letteralmente in volo con la loro mongolfiera (“targata” non a caso ancora YU-goslavia, e in generale mezzo ottocentesco con cui uscire dal tempo e dalla quotidianità) inaspettatamente euforici nel nuovo corso della loro terza età e nel loro nuovo amore (im)possibile, sembrano avere negli occhi molti più orizzonti futuri di quanti ne abbiano i loro nipoti e pronipoti messi in ginocchio dal “nuovo” sistema e dalle sue “nuove” forme di povertà, ed è proprio nel confronto impietoso fra le generazioni che Žilnik stratifica e radicalizza ulteriormente il discorso sociopolitico che scorre al di sotto della superficie della trama, guardando alla contemporaneità come una sconfitta storica di chi aveva creduto in ben altro, e ora può solo mettersi una mano sul cuore per aiutare il più possibile chi ha di caro.

Ma andiamo per ordine, non corriamo troppo. Inizia all’interno di un negozio di vecchi dischi in vinile usati di Vienna Restitucija, ili, San i java stare garde, o Eighty Plus che dir si voglia. Scaffali sui quali, quasi miracolosamente, il protagonista Stevan Arcin interpretato dall’attore non professionista ed effettivamente musicista jazz Milan Kovačević trova un 33 e due 45 giri incisi con il suo quintetto, i The Montenegro Five, quasi (o forse oltre) mezzo secolo prima. Prima di riuscire effettivamente a comprarli, tuttavia, suonerà il suo telefono, per annunciargli come la sua amatissima casa natale isolata da tutto nei paraggi di Novi Sad, espropriata dalle truppe di Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale per assegnarla ai Croati e poi rimasta per decenni al demanio pubblico, gli sia stata nuovamente assegnata dal governo serbo come (ultima) parte dell’eredità paterna. Una restituzione, appunto, che diventa l’occasione immediata per aprire a sogni e realtà della vecchia guardia. Con un ritorno ai luoghi natali e una famiglia che, a partire dalla moglie che all’idea di seguirlo in giro per l’Europa nelle sue tournée e nelle sue stagioni da musicista resident presso le località sciistiche aveva preferito già decenni prima il divorzio, non lo ha mai realmente supportato, ma anche ai vecchi amici (vivi e morti), alle vecchie storie che hanno fatto la Storia, ai ricordi personali e condivisi di quel primo sassofono comprato nei primi anni Sessanta per poi passare con immutata passione e uguale talento al vibrafono, al basso e infine alle tastiere una volta persi i denti e diventato fisicamente impossibile soffiare in un’oncia. Un viaggio nel quale Stevan, ‘giovane’ e ancora pieno di voglia di vivere, ridere, suonare, rievocare, esprimersi e forse soprattutto amare (una donna, una nipote, i suoi bambini), verrà accompagnato da Nina, figlia di un amico mitteleuropeo impegnata in una ricerca sul ruolo delle donne nelle società comuniste e in quelle postcomuniste le cui interviste permetteranno a Žilnik di spingere ancora di più l’acceleratore sulle istanze fieramente politiche che si celano dietro quasi ogni dialogo e situazione (più e meno) sottilmente comica del film, in una riscoperta delle radici filtrata attraverso la saggezza della terza età e l’ardore quotidiano di chi è ancora ben lontano dal gettare la spugna (e forse pure dall’impotenza, o forse è davvero solo il telefono in tasca…). Fino all’incontro con quella vecchia amica ed ex-cantante, persa per tanti anni e adesso di nuovo a lato del pianoforte, con cui mettersi a suonare As time goes by fino a scoprire una nuova luce nel fondo degli occhi e ritrovare, proprio quando sembrava ormai troppo tardi, una vibrazione del corpo e dell’anima che non ci si sarebbe mai più aspettati. Žilnik la mette in scena con dolcezza e apparente leggerezza, punteggiando di ironia e di ensemble musicali i dialoghi costantemente sospesi fra una brillante sceneggiatura-canovaccio e il vero assoluto che aggiunge l’improvvisazione dei non professionisti, chiamati a nutrire il proprio personaggio delle proprie vite e delle proprie esperienze, del proprio senso dell’umorismo, quando necessario pure dei propri imbarazzi quando la macchina da presa continua a filmare e non si sa più esattamente che cosa dire, dando vita a straordinari siparietti in cui magari finire per stratificare ulteriormente i discorsi ed affermare ancora qualcosa in più sullo stato delle cose tirando in mezzo gli immigrati cingalesi o la caduta di Angela Merkel come possibili origini dei mali. Il resto sono incontri e situazioni spesso paradossali (il contadino che trainerà con il suo trattore l’auto di Steven fino alla Polizia, non credendo a una parola della restituzione della sua proprietà), rapporti umani (ora tesi, ora interessati, ora idilliaci e ora magici) e confronti storici e generazionali fra differenti forme della stessa iniquità sociale, dello stesso serpeggiante razzismo/classismo dietro cui trincerarsi nelle stesse guerre fra poveri, della stessa società cambiata (in peggio) nella mentalità («ai tempi della scuola il fascino era verso i proletari, non verso i ricchi») e nel paesaggio (il ponte in costruzione sul fiume proprio dove una volta c’erano le gallerie, come a testimoniare l’eterna evoluzione/rivoluzione di ogni luogo) eppure sempre perfettamente identica fra il passato e la contemporaneità nelle sue dinamiche di ingiustizia, di repressione e di interessi personali con cui tentare invano perfino la via dell’interdizione di un genitore perfettamente lucido chiedendo espressamente la sua infermità mentale pur di mettere le mani sulla sua ghiotta proprietà. Una formalità che per Steven non sarà in alcun modo un problema, con la sua memoria ancora perfettamente affidabile sia sul lungo sia sul breve termine, con la sua brillantezza ancora immutata, con la sua “nuova” gioventù di terza età fatta di un nuovo amore, di una nuova speranza e di infiniti progetti ancora da realizzare. Che poi a ben vedere nient’altro è che la stessa freschezza di Želimir Žilnik e del suo cinema, eternamente giovane e vitale quando non proprio caustico e bruciante nelle forme e nello sguardo, e sempre più spontaneo e(ppure) ponderato nella sua realizzazione. Semmai, un dato su cui dovrebbero riflettere le nuove leve del cinema contemporaneo è come la somma delle età dei registi dei due film di gran lunga migliori di questa 75ma Berlinale, capaci da soli di mangiarsi quasi tutto il resto, fra gli ottantadue di Žilnik e i novantadue di Edgar Reitz arrivi senza alcuna difficoltà a raggiungere i 174 anni con vista sui 176. Come a dire che dai grandi maestri c’è ancora tanto, tantissimo da imparare, tanto più quando le loro teste si rifiutano di invecchiare. Mature come quelle di chi ha già vissuto tutta la vita, ma al contempo entusiaste e votate al futuro come quelle di un adolescente che ha ancora un’intera esistenza da scoprire, mentre dall’alto di una mongolfiera in volo ogni volta scopre nuove porzioni del mondo portando il proprio orizzonte e il proprio pensiero sempre un po’ più in là.

Marco Romagna