Le possibili forme del cinema, come di consueto il più possibile spiazzanti e pungenti. L’ironia sardonica più intelligente e sorniona, come una lente uguale e contraria attraverso cui ritornare a vedere i giusti contorni di una realtà intenzionalmente deformata per chi la guarda a occhio nudo. Il più feroce anticapitalismo, con cui ribellarsi a quella dittatura della società dei consumi che già nel precedente Do not expect too much from the end of the world il sempre geniale Radu Jude sistematicamente distruggeva in un impietoso confronto con gli anni – non certo idilliaci – sotto il regime di Ceaușescu. Ma soprattutto, in questo caso, il volto più ipocrita e falsamente gentile della pubblicità, arma di distrazione/distruzione di massa che legittima il potere, economico e non solo, delle mille facce di bronzo del consumismo. Esercitando una pressione costante sui desideri e sulle coscienze, come un infinito lavaggio del cervello, come una trappola collettiva su tubo catodico, come un crescendo inarrestabile di messaggi sempre più mirati, sempre più «scientificamente testati», sempre più irresistibili, sempre più «magici». Tanto che a Jude, già in passato illuminante nel costruire interi lungometraggi filmando esclusivamente fotografie all’albumina (The Dead Nation) o documenti de-secretati sugli episodi più bui della Storia della Romania (The exit of the trains, sul progrom di Iași del ‘41), questa volta non serve girare nemmeno un fotogramma. Per costruire, in collaborazione e co-regia con lo studioso e filosofo Christian Ferencz-Flatz, le sue Eight postcards from utopia, gli è più che sufficiente sfruttare al massimo delle sue potenzialità lo specifico filmico del montaggio, in una sorta di Blob infinitamente spassoso ma non per questo meno ragionato, politico, chiaro e ficcante, che in settanta minuti e appunto otto capitoli (più un breve epilogo), racconta attraverso gli spot passati nel frattempo sulle sue reti televisive un Paese appena uscito da una dittatura dichiarata per lanciarsi fra le braccia di un’altra dittatura sostanziale e forse ancora più infida, o per lo meno ancora più brava a mentire, a rendersi accattivante, a costruire a tavolino una sua fittizia immagine pulita e sorridente. Dalla padella dell’illusorio entusiasmo post comunista alla brace del giogo capitalista, in un piccolo film-saggio, con ogni probabilità realmente debitore al geniale programma Rai ideato da enrico ghezzi a sua volta ispirato alla straordinaria Verifica incerta di Grifi e Baruchello, che si inoltra nella progressiva e intenzionale costruzione di un immaginario collettivo da continuare per decenni a colonizzare con prodotti, intuizioni e jingle sempre nuovi, per mostrare attraverso le otto cartoline dall’utopia del titolo (e qualche ciak fuori onda in cui risultare sempre più convincenti) l’ipocrisia delle strategie commerciali, il crescente martellamento con cui si fanno largo, il loro ripetersi e il rinnovarsi per colpire ancora più a fondo. Dalla Pepsi che già a fine anni Ottanta contribuiva alla propaganda verso un popolo da ri-formare nell’identità nazionale tornando ai legami identitari con l’Impero Romano, verso la graduale e inesorabile costruzione di un consumismo sempre più selvaggio, sempre più preciso nella ricerca dei suoi target, sempre più persuasivo nelle strategie e nei modi con cui si pone, sempre più sul pezzo nel conformarsi al sentire comune, e sempre più ipocrita nel fingere di soddisfarlo. Con detersivi sempre più economici che garantiscono bianchi sempre più bianchi, con l’avvento dei green screen che consente di mostrarne gli incantesimi, con vodke imperialiste che progressivamente diventano dettagli di una rassicurante morbidezza familiare, con allusioni sessuali sempre più esplicite con cui far desiderare i prodotti e con alambicchi linguistici con i quali rendere poetico perfino un insetticida. Con le avvertenze obbligatorie che diventano una frase pronunciata di corsa e in maniera quasi impercettibile, con le linee erotiche che lanciano in sovraimpressione il loro costosissimo numero di telefono perché anche l’(auto)erotismo può essere un business, con l’aggiornarsi dei prodotti in vetrina dalle vecchie fotocopiatrici agli iPod, alle Playstation e poi ancora al Viagra, e ultimamente con gli animali spensierati e felici di aver ritrovato (?) il loro verde e una Natura incontaminata ai limiti del post-umano grazie ai fondamentali sforzi di chissà quale azienda che si occupa di tutt’altro, e che probabilmente in questo momento sta scaricando i suoi liquami tossici in una falda acquifera.
Inizia come si diceva con L’origine dei Rumeni, la piccola odissea pubblicitaria di Eight postcards from utopia, traduzione letterale dell’originale Opt ilustrate din lumea ideală che Radu Jude ha presentato, in straordinario double bill con l’altro e altrettanto definitivo Sleep #2 vera e propria summa della pop-art (del resto, che cos’è la pubblicità se non appunto Pop-art?), al 77mo Festival di Locarno. Un incipit che non può che coincidere con il principio della vera e propria rifondazione, in immagini, di un Paese appena ritornato dalla Cortina di Ferro, nominalmente neo-libero e invece semplicemente ancora inconsapevole di essere passato sotto un altro tallone. Un Paese da riportare nelle arene dei gladiatori ma al contempo da instradare al bingo, ai concorsi a premi dei supermercati, alla telefonia (chiaramente presentata come libertà di parola, che finalmente può permettersi di interrompere gratis perfino un discorso di Ceaușescu), e soprattutto alla grande privatizzazione del ’95 in cui tutto diventerà società per azioni, speculazione, fame di denaro (e di truffa, probabilmente) propedeutica al secondo capitolo di Jude e Ferencz-Flatz, Money talks. Tutto di «possiamo moltiplicare i vostri risparmi» e di quiz con premi in denaro, di Chi vuol essere miliardario e di investimenti «sicurissimi» con cui perdere ogni singolo lei. Mentre nel frattempo va avanti La rivoluzione tecnologica, con l’avvento dei primi avvenieristici Motorola, con i risultati «scientifici» sulla qualità di alimenti e imballaggi magari nel frattempo dichiarati cancerogeni, e con veri e propri effetti visivi che spettacolarizzano e che sostengono di poter provare la superiorità della nuova Dacia appena uscita in concessionario o delle nuove lamette Gillette di recente sul mercato. Una tappa intermedia attraverso la quale giungere al vero e proprio Miraggio magico quarto capitolo del film, in cui sponsorizzare nuovi teleschermi su cui vedere nuove pubblicità in qualità superiore, per potersi far promettere miracolose creme viso «per un’eterna giovinezza» o bianchi talmente bianchi da diventare trasparenti fino a rendere gli esseri umani invisibili nella loro aura di pulito. Un inesistente piccolo Paradiso nel quale le TicTac riarredano da sole casa, gli animali cantano con i padroni, Babbo Natale giunge nella notte a regalare polizze vita e qualsiasi idea impossibile diventa effetto speciale, volo, pura finzione cinematografica con cui creare l’Isola che non c’è mentre quello che un tempo sembrava fantascienza diventa inevitabilmente ricordo, superato, non più funzionante, necessariamente da sostituire. La stessa supposta necessità su cui si basa la ‘cartolina’ Le età dell’uomo, che cerca per ogni possibile fascia d’età il proprio pubblico. Dai prodotti per gravidanza e maternità fino ai giochi per bambini (e magari per adulti), passando per i Game Boy, per le discoteche, per gli strip club, per la carriera militare o per gli abiti da sposa, e per il desiderio sessuale che sarà a sua volta assoluto protagonista dell’ultimo capitolo Masculin Féminin in cui al di là del titolo godardiano ulteriormente targettizzare e poi sedurre fra allusioni e decontestualizzazioni. Ma anche per la famiglia, per il lavoro, per i seggiolini della macchina, per le birre da bere con gli amici, e alla fine per gli adesivi da dentiere o per le pilloline magiche con cui riscoprirsi adolescenti, magari in combinazione proprio con quel thé miracoloso per prevenire l’infarto al miocardio. Fra tecniche oratorie sempre più raffinate con cui infiocchettare il nulla (sintetizzate nel capitolo Found Poetry) e la già citata Apocalisse verde post-umana e più che mai ipocrita dell’epilogo, mentre dritto come un treno Eight postcards from utopia stila una vera e propria storia rigorosamente e non certo a caso no-commercial-use del popolo rumeno attraverso L’anatomia del consumo che nel popolo è stato progressivamente instillato come una droga da assumere in quantità ed effetti sempre più grandi. Il risultato è un film-saggio, un film politico, un film storico, un film sociale, una commedia a suo modo assolutamente narrativa di contraddizioni e superamenti, una riflessione teorica su come il cinema possa emergere anche dalla sua negazione, dal kitsch più estremo di uno spot pubblicitario, dalla propaganda sistemica che non può che intrinsecamente farne parte. Un film che, senza smettere nemmeno per un secondo di far ridere, trova la verità nello smascheramento del più puro falso, ragionando su un popolo e sulla capacità televisiva e pubblicitaria (e quindi del cinema, come sempre “menzogna 24 volte al secondo”) di plasmarlo e di plagiarlo, di convincerlo anche dell’assurdo, di portarlo verso scelte economiche e di vita, ma anche semplicemente opinioni, che sono sempre necessariamente la ricchezza di qualcuno a discapito della povertà di tanti altri. Ben oltre la venerazione collettiva per oggetti che diventano imprescindibili teorizzata da Roland Barthes (ma a suo modo anche dalla Pop-art), e ben oltre le riflessioni di McLuhan sulla centralità dei (mass) media. Chissà che qualche spettatore, di fronte all’ennesimo colpo di genio e conseguente capolavoro di un Radu Jude che sembra del tutto incapace a sbagliare un film, non si metta a guardare quel rassicurante quadro luminoso che appare ogni giorno sul mobile del salotto con un po’ più di sospetto…
Marco Romagna