«En même temps qu’Alexandre, toute une époque du cinéma va disparaître. On abandonne les studios, les films se tourneront dans les rues sans vedette et sans scénario. On ne fera plus de film comme Je vous présente Pamela». È nel sogno giocoso di rivivere una grande produzione cinematografica d’impronta classica che risiede il primo atto d’amore espresso da Effetto notte (1973) di François Truffaut verso la settima arte. Se in questa occasione Truffaut sazia infatti abbondantemente la sete di conoscenza del pubblico sul come si fa(ceva) un film, d’altra parte resta un’inesauribile curiosità su Je vous présente Pamela, il fantasioso film nel film che sin dalle prime battute si delinea come un’opera scarnificata nei suoi elementi classici. Pressoché un archetipo narrativo, fondato sul più elementare intreccio di passione e legami familiari, con tragica infrazione della barriera generazionale. Potrebbe essere un film della Hollywood classica, e potrebbe essere un film di Truffaut, sull’onda delle passioni viscerali consapevolmente rimesse in scena come nel caso di La mia droga si chiama Julie (1969). Come si sa, infatti, Effetto notte è uno degli esempi più celebri di “cinema sul cinema”, occasioni in cui la settima arte non solo riflette sui propri strumenti espressivi, ma anche sulla vita da set, sulle vicende realizzative che animano le esistenze di attori, registi, produttori e maestranze.
Per François Truffaut Effetto notte è di fatto un film-bilancio, una sosta di riflessione a metà di un percorso autoriale, dove il regista si sofferma a tirare le somme dei propri amori e del suo fare-cinema. Il film è un labirinto di citazioni e autocitazioni, in cui, con le parole dello stesso autore, «Ci sono parecchie cose iniziate in altri film che terminano qui, io do loro una conclusione». Ma sul fondo restano i frammenti di quel film nel film, ideato in un contesto di medio-ricca produzione, con la neve finta, gli studio qui ritrovati alla Victorine di Nizza, intrecci avvincenti e star attempate provenienti da antiche regole divistiche – Jean-Pierre Aumont e Valentina Cortese incarnano attori alle prese con la lavorazione di un film, ma a loro volta si profilano come immagine di divismo d’altri tempi. Non si tratta di un quieto passaggio di consegne, bensì della dolorosa constatazione di un mutamento avvenuto. Girare i film in strada senza sceneggiatura è un’ipotesi di nuova parola d’ordine, che sinteticamente sussume mutamenti sopraggiunti a spazzare via altre modalità di produzione e fruizione. Se ne può dedurre dunque che per Truffaut sia ormai impossibile, nel suo tempo coevo, trovare ancora forme di cinefilia dovute ai processi di mitopoiesi innescati dal cinema classico. Nessuno, da bambino, camminerà più nella notte per andare a rubacchiare i manifesti di Quarto potere appesi nell’ingresso di un cinema. Certo la cinefilia è immortale, ma il Mito è finito, al massimo ci possiamo accontentare della Storia. La distanza dalla realtà evocata dal cinema classico, così intensa da spingere le immagini riprodotte, anche solo manifesti, in un territorio sognato di simulacro da raccogliere e conservare, è perduta per sempre. La distanza si è estremamente ridotta, adesso il cinema è in mezzo alle strade, ci passa accanto, possiamo toccarlo minuto dopo minuto. Nascono nuove modalità, ma il Mito, tale poiché attinente a un territorio impedito all’immediato passo dell’uomo, si è disintegrato.
Proiettando tale riflessione verso il lontano futuro rispetto al 1973, Effetto notte si delinea agli occhi attuali come una celebrazione pre-mortem della dimensione analogica. I trucchi e trucchetti di realizzazione di un film che Truffaut si compiace di svelare al pubblico attengono totalmente a un’era di diretto contatto e conflitto tra cinema e realtà, a distanza siderale rispetto all’attuale “tutto è possibile” di epoca digitale. Marcando con enfasi l’inventiva artigianale e ingegnosa nel trovare soluzioni minimali a qualsiasi problema di set, Effetto notte mostra con grazia e divertimento gatti ritrosi a farsi attirare da cibo e latte, finte candele che nascondono lampadine, applausi e brusii ripresi dal vero, sigarette tagliate per farle durare di più nelle repliche dei ciak, e chi più ne ha più ne metta. Mostra anche un primario conflitto tra cinema e realtà: il rapporto con l’attore, non immagine scomponibile e ricomponibile su uno schermo di computer, ma persona viva e pulsante, che oltre alle immediate implicazioni con la propria vita privata è anche vero oggetto in scena, da modellare, plasmare, guidare, contenere, assecondare. È il primo oggetto davanti alla macchina da presa, che una volta azionata ne cattura un frammento vero/falso, ritagliandolo dalla vita e fissandolo nel cinema. E qui, nel tempo di Truffaut, non è certo correggibile con un ritocco di pixel.
In tal senso è forse da leggersi una delle sequenze più celebri e schiettamente divertenti di Effetto notte, tornato su grande schermo al 37mo Bergamo Film Meeting fra i film scelti per ripercorrere la propria leggendaria carriera da Jean-Pierre Léaud: la ripetizione, sempre più estenuata, di uno stesso ciak in cui Valentina Cortese continua a sbagliare porta sul finale. Perché l’attore è oggetto ma non è passivo, e la sua resistenza a farsi cinema è un rischio all’ordine del giorno. L’unico modo per correggerlo è girare di nuovo, e ancora, e ancora. Del resto, come dice Ferrand, doppio finzionale di Truffaut nel film, «Les films sont plus harmonieux que la vie, il n’y a pas d’embouteillages dans les films. […] Les films avancent comme des trains, comme des trains dans la nuit». Sta proprio qui, nell’intimo conflitto tra un mondo in cui tutto bene o male è preordinato, e un altro mondo assai più problematico e imprevedibile, il nucleo fondante di Effetto notte. Nel cinema si possono forse trovare anche delle risposte. Nella vita è ben più complesso. Il cinema va comunque avanti, non si ferma neppure di fronte alla morte del proprio attore principale. Un finale va sempre trovato, pure se esso prevede la morte in scena dello stesso attore che è morto prematuramente nella realtà – intelligente paradosso con cui Truffaut chiude il film. E d’altra parte, quella stessa morte messa in scena può essere girata infinite volte per scegliersi poi il ciak che risulta più convincente. Per cui il cinema non si ferma neanche dopo aver inscenato la morte. La morte può ripetersi all’infinito, e in tal senso il cinema è vincente sulla vita. Più vita della vita. Però, non è la vita. È il prezzo da pagare.
A fare da immediato controcanto a tale impalcatura di idee Truffaut imbastisce un gioco, come vedremo, di ascendenza renoiriana, gustoso e divertente, sugli intrecci tra vita pubblica e privata. Il quadro restituito da Effetto notte riguardo alle dinamiche interpersonali intorno a un set cinematografico è (possiamo dirlo) poco sorprendente, avvitato in una prevedibile e costante precarietà di esistenza e sentimenti. Tuttavia a tale quadro di precarietà concorre l’adozione di una grammatica filmica ancora filiata dai dettami della Nouvelle Vague. In Effetto notte Truffaut anzi gioca più specificamente con le pratiche del cinéma-vérité, simulando sovente il passo e lo stile del “qui-e-ora” di un falso documentario sulla realizzazione di un film – macchina a mano, lunghe sequenze che sembrano pedinare il regista Ferrand nelle sue decisioni, dialoghi che evocano assai efficacemente l’improvvisazione e il registro colloquiale. Altrove, Truffaut ricorre ancora a convenzioni del cinema classico riesumate con gusto critico, soprattutto nell’utilizzo di consolidati strumenti di transizione e interpunzione (domina la dissolvenza in nero con crescendo musicale di sospensione talvolta supportata da battute di dialogo stentoree e scolpite nella pietra, e in un caso interviene pure una tendina nera a isolare Aumont e la Cortese abbracciati nell’angolo sinistro del frame). D’altra parte, un linguaggio così critico e consapevole si delinea di fatto come il primo passo verso la dissoluzione del Mito. Dove c’è coscienza, non può esserci Mito.
È sufficiente un esempio per dare la misura del gioco consapevole innescato da Truffaut: come da antica convenzione, se in scena appare una pistola, essa è predestinata prima o poi a sparare. Qui è lo stesso Ferrand, interrogato sulla scelta del revolver per il finale di Je vous présente Pamela, a mostrarla ben in dettaglio, impugnata e stretta nel frame. Quella pistola dunque sparerà, collocata in un territorio ambiguo di doppia scelta/necessità registica (Ferrand regista di Je vous présente Pamela, e Truffaut regista di Effetto notte). Se perciò si è giunti a un tale grado di consapevolezza del mezzo (fonte originaria dalla quale ha preso le mosse la riflessione della Nouvelle Vague), se il cinema ormai può aprire tutte le proprie scatole cinesi, si è anche del tutto consapevoli che questa stessa coscienza è lì, pronta e convocata a destrutturare un linguaggio, a mostrarlo in esploso nel più puro atto d’amore. In tal senso Effetto notte si delinea come una sorta di commento d’autore a quanto ha significato la Nouvelle Vague per la storia del cinema, un’ondata di coscienza teorica del mezzo che ha sancito simbolicamente per il cinema stesso la fine della sua età ingenua. Nell’offrire allo spettatore un tipico sguardo dietro le quinte, Truffaut svela minuziosamente una montagna di trucchi, con la stessa meraviglia di un bambino che distrugge una bambola automatica per vedere dentro come funziona. Eppure nel piacere di indagare e sminuzzare un linguaggio facendo stavolta di tale indagine dichiarata materia di racconto, Effetto notte conserva anche una limpida grazia e un sorridente amore per una scelta di vita che inevitabilmente allontana dalla verità immediata della vita stessa. A tratti sembra di assistere a un ulteriore capitolo renoiriano, dove la fuga nell’arte, dopo il teatro e il balletto/varietà (La carrozza d’oro, 1952; French Cancan, 1955), è stavolta direttamente reinquadrata nella modernità del cinema, più recente incarnazione dello spettacolo popolare. Di alcune opere di Renoir Effetto notte conserva anche il brillante passo di commedia dalle leggiadre apparenze, in cui tutto sembra immediato e spontaneo, e al contempo controllatissimo. Canto per antichi linguaggi, ma con la ferma adesione e ulteriore atto di fede per una grammatica moderna, da apparentare all’ascendenza di qualche indubitabile maestro (Hitchcock, uno fra i tanti, ça va sans dire). Non si torna più indietro. Il tempo va in una sola direzione. Tragedia e commedia della vita, come del cinema. Che fa parte della vita e la risucchia, tenera entità parassitaria della quale, per chi la ama (come realizzatore o come fruitore, o entrambe le cose nello stesso istante), non si può fare a meno.
Massimiliano Schiavoni