EFFETTO DOMINO (2019), di Alessandro Rossetto
Alessandro Rossetto, sei anni dopo lo splendido esordio alla finzione con Piccola Patria, continua la sua mappatura del nord-est con rigore compositivo e originalità formale. Presentato alla 67ma Mostra di Venezia nel calderone di Sconfini, Effetto Domino tiene fede al titolo scavando, con piccoli e continui scarti narrativi, nella realtà di una cittadina termale non specificata e ora caduta in disgrazia. Compito di un visionario, impavido e disorganizzato imprenditore è la ri-conversione che porterà strutture ricettive a divenire residenze di lusso per la terza età. La riflessione, divisa in capitoli apparentemente mobili, diventa anche uno spazio di idealizzazione della morte, del paradiso utopico in cui passare l’ultimo periodo della vita in cerca di una specie di elevazione – o addirittura di una possibilità di infinito – tesa a convincere i possibili avventori. Da quando però vengono a mancare la liquidità e i finanziamenti necessari per la costruzione della struttura ecco che tutto crolla; il dramma materico della vita (della crisi, della povertà, della vendetta) prende il sopravvento sull’idealizzazione della stessa. L’atmosfera diventa sempre più cupa, l’isolamento tetro, la solitudine ossessiva. In questo detorunament implosivo finale Rossetto trasla tra tutte le facce della sconfitta, affronta le caselle di questo domino alla rovescia, quasi a cercare l’origine dell’errore, del vuoto che risiede nell’anima della provincia. Uno squarcio esistenziale che tenta di andare ben oltre alla questione immobiliare.
È un film sullo spazio composto da spazi, Effetto Domino. Tutti da costruire, attraversare e vivere. Rossetto sceglie un punto di vista decentrato per guardare alla tendenza globale, in cui l’idea della gentrificazione diventa una categoria dell’anima e della lotta per un’identità sempre più indefinita. Il Veneto e/è Honk Kong, o poco ci manca, la direzione è la stessa, per una continua lotta – quasi animalesca – degli uni contro gli altri senza nessuna possibilità di fiducia e tanto meno di speranza. Personaggi in un paesaggio senza direzione se non quella del sopraffare, l’uno pronto a sbranare l’altro in attesa di essere sbranato, in una catena del disastro che pare non avere più fine. In questa chiave il dramma, prima familiare e poi professionale, è solo una trama esile e quasi improvvisata per poter scandagliare tutto ciò che sta dietro alle quinte, un sistema del male che non possiamo vedere e che ci lascia spiazzati. Un’epopea in cui nessuno pare potersi salvare, e nemmeno redimere, perché cieco dal suo ruolo sociale – il lavoro e gli affetti come unico motore possibile, e ossessivo, del vivere – teso ad arrampicarsi di qualche gradino per poter veder l’altro dall’alto, e così continuare. E invece così mentre il pesce grande, marciando sulle disgrazie altrui, mangia il pesce piccolo, ci sarà sempre un altro pronto a sopraffare, perché il profitto è l’unica cosa che conta e la sua prospettiva annulla tutto il resto. Così nel finale tutto si dissolve per tornare ad una stasi del/nel vuoto che inquieta e lascia interdetti. Possibile che non ci sia una chiave d’uscita da questo meccanismo?
Tratto, assai liberamente, dall’omonimo romanzo di Romolo Bugaro, questo Effetto Domino conferma l’assoluta originalità di una autore come Rossetto nel sempre più desolante panorama di un cinema italiano profondamente astenico e asfissiante. Nei sei capitoli a caduta in cui è suddiviso definisce con coraggio una di quelle derive antropologiche, sociali ed etnografiche che appartengono alla contemporaneità del mondo occidentale. Lo fa con vigore stilistico (nella messa in scena teatrale, nella recitazione assai straniante, nell’atmosfera da genere, nell’uso del dialetto, nella narrazione ellittica) e linguistico (deformando gli spazi con le ottiche grandangolari e poi percorrendoli con una steady in movimento perpetuo e confuso), costruendo un film complesso e non totalmente composto ma dall’indubbio fascino e dall’innegabile forza psicologica. E non è certo un caso che quando la simbologia abbraccia un senso più puramente esistenziale, in cui il rapporto con la morte e con l’aldilà prende il sopravvento rispetto al peso specifico di quelle architetture utopiche e impossibili, il film paia perdersi in metafore accennate e in visioni astratte e solamente abbozzate. E se il grande male della nostra società fosse l’ossessione della morte? Se il nostro desiderio, assai perverso, fosse quello di lasciare una costruzione fisica per sfidare l’oblio? Se l’offerta di un paradiso artificiale fosse solamente un nostro postularci la possibilità di offrirci salvatori, e quindi assoluti, al cospetto dell’altro? Su queste osservazioni metafisiche il film rimane muto, ma l’invitarci subliminalmente a porcele in atto è senza dubbio la sua forza maggiore. Quello che resta è un senso di profonda provvisorietà (confermato anche dal montaggio apparentemente caotico e irrisolto delle ultime sequenze) che pare colpire anche tutti i protagonisti di questo racconto, orgogliosamente antinarrativo e antinaturalistico. Per quanto forse meno schietto e diretto del precedente Piccola Patria, questo Effetto Domino rimane un altro capitolo fondamentale nel percorso coraggioso e personale – prima documentaristico e ora di finzione (anche se di questo bisognerebbe parlare a lungo) – che Rossetto porta avanti nel cercare di capire cosa (ci) stia succedendo. Qui. Ora.
Erik Negro