La mente corre subito a Sasha Grey in The girlfriend experience di Soderbergh, oppure a Rocco Siffredi in ben due titoli di Catherine Breillat, o ancora a James Deen nel magnifico The Canyons di Schrader, senza dimenticare Jenna Jameson nel puro mainstream di Zombie Strippers. Passando, volendo, per Karen Lancaume (accreditata con il suo vero nome Karen Bach) e per Raffaela Anderson in Baise moi – scopami, assoluto cult New French Extremity di Coralie Trinh Thi e Virginie Despentes, dove però il sesso esplicito era non solo presente, ma parte assolutamente integrante e fondamentale del film. Non è la prima volta che il cinema “di massa”, “canonico”, “da sala”, quello non destinato ai circuiti a luci rosse, chiama a sé affermate pornostar per interpretare ruoli (non necessariamente) controversi. A volte configurandosi come un unicum, altre lanciandoli in una carriera alternativa, lontana dai set hard. Tanto che per Stoya, che a dispetto del suo (forse?) ritiro annunciato nel 2016 nel mondo del porno è ancora fra le assolute regine, la fantascienza di Ederlezi Rising è stato un nuovo debutto da cui ripartire, cui hanno già fatto seguito le riprese di Flasher, commedia dark di Robert M. Cluesman attualmente in postproduzione.
Classe ’86, sessantasei film hard alle spalle in dieci anni, filiforme e bellissima con i suoi capelli corvini e con i suoi occhi verdi, Jessica Stoyadinovich (sempre ammesso che quello con cui è da sempre nota nel mondo sia il suo nome vero) è sempre stata molto più di un’attrice pornografica. È un’icona, è una paladina, è un simbolo di libertà e di emancipazione, fra le interpreti più intelligenti – al pari di Sasha Grey e delle nostrane Moana e Valentina Nappi – di un mondo troppo spesso associato al pecoreccio e altrettanto prontamente condannato sotto le scuri del moralismo più facile e ipocrita. Tanto che, in una pornografia americana che sempre più spesso, dalle sfarzose ville con piscina, si affretta a dichiarare il proprio sostegno al candidato repubblicano di turno, Stoya ha invece sempre incarnato la sinistra, il progressismo, l’apertura, e specialmente negli ultimi anni, con la sua aperta opposizione a Trump, il ragionamento prettamente filosofico e culturale. Un discorso ben conscio di come la seduzione sia prima di tutto atto artistico e politico, e di come il sesso – sia questo consumato o solo desiderato, consenziente o violento, allusorio oppure concreto – sia da sempre una delle principali dinamiche di potere.
Non è certo un caso che nel 2015 proprio Stoya sia stata la prima scelta come interprete delle Hysterical literature di Clayton Cubitt, geniale esperimento fisico, neurologico e videoinstallativo disponibile in tutte le sue 12 sessioni su YouTube che, fra le pagine di un racconto (non necessariamente) erotico1 e la stimolazione rigorosamente fuori campo di un vibratore, metteva apertamente in conflitto la razionalità della lettura e la libidine sensoriale. In una lotta fra cervello e corpo che non potrà che concludersi ogni volta con l’inevitabile orgasmo (non più) letterario, le Hysterical literature hanno di fatto comprovato come il piacere sia destinato a vincere sempre su ogni tentativo di resistergli con la logica2, e anche da questa consapevolezza Stoya è partita per giungere agli assunti del suo libro di recente pubblicazione Philosophy, Pussycats and Porn, già best-seller internazionale per il suo aperto e sapido ragionare sulla femminilità, sull’erotismo, sulla seduzione, sulla sessualità e sul suo riflettersi sulla società. Che poi, immersi nella politica e nei rapporti di forza del capitalismo, sono i veri argomenti anche di Ederlezi rising, i principali spunti di interesse del film-navicella partito dalla Serbia e atterrato con la sua magnetica Stoya/androide nella vicina Trieste al Science+Fiction Festival 2018.
Ben al di là della cura certosina nella costruzione fisica dell’astronave, ben al di là del sorprendente – specialmente in un esordio a budget ridotto – apparato visivo, e ben al di là di uno sguardo, quello del giovane regista serbo Lazar Bodroza, forse non ancora del tutto maturo ma che già lascia emergere un talento registico indiscutibile, Ederlezi rising dissimula infatti sotto le apparenze della canonica avventura galattica un discorso decisamente inequivocabile sulla natura dei rapporti di forza che coinvolgono i due sessi, sulle regole di ingaggio delle relazioni interpersonali e sulla natura fondamentalmente politica dell’eros che, sullo schermo e grazie al diretto coinvolgimento, come anticipavamo, di personalità associate a un immaginario vietato ai minori legato a filo sempre più stretto all’ambiente liberal, si traduce nell’indagine della natura erotica della politica. Perché l’androide è impostato per accompagnare e soddisfare l’uomo, ma al contempo lo controlla, tiene rapporti su di lui, salva ogni suo respiro e ogni suo atto sulla sua memoria digitale e si prodiga per l’unica cosa che contava già in fase di progettazione: non certo l’amore, non certo la felicità dell’uomo, ma solo ed esclusivamente la riuscita della missione, disegno oscuro e più grande da cui dipendono tutti i legami, le derive e i ricatti di quell’arma potentissima chiamata carne. O Capitale, che poi è la stessa cosa.
È un ragionamento messo immediatamente in chiaro sin dall’inizio, con la descrizione meticolosa di un futuro (utopistico? distopico?) lontano 130 anni da oggi e in cui la dottrina capitalistica ha sì portato lo sfruttamento globale alle estreme conseguenze, ma è anche minacciata dalla rapida e irresistibile reinsorgenza del socialismo, ormai pronto al sorpasso con l’invio di selezionati colonizzatori dello Spazio. È in uno di questi, lo slavo Milutin, che finisce per manifestarsi quel paradosso che vede il fondamento della società statunitense e quello dell’apparato sovietico riassunti come i due lati di una stessa medaglia. Il terreno di scontro dei suoi esperimenti, tuttavia, non si estenderà sulla superficie di qualche pianeta sperduto, ma si ridurrà ai corridoi della sua astronave e vedrà come unico contraltare un androide dalle fattezze femminee programmato per assisterlo e, ça va sans dire, compiacerlo: è quindi nella definizione di un legame che nasce da presupposti di egemonia – e non è un caso che vengano più volte apertamente menzionate le Leggi di Asimov – ma che evolve nella ricerca di un consenso legittimo, come quella del tiranno che pretende dal suo popolo non più cieca obbedienza, ma amore incondizionato, che il film si dipana, nella contraddizione in termini costituita da un libero arbitrio imposto e da un’emancipazione obbligata. Impossibile, quindi, vista la provenienza geografica del regista Lazar Bodroza, ignorare i riferimenti alla realtà serba della seconda metà del Novecento, passata dall’accorpamento jugoslavista del Maresciallo Tito alle spinte centraliste Slobodan Milošević, traslata per l’occasione nel confronto tra un leader umano che dietro un’apparente magnanimità nasconde il bisogno di alimentare il proprio ego e un suddito robotico per cui conquistare l’autonomia e l’autocoscienza significa soltanto sottoporsi a un giogo peggiore della schiavitù. Salvo rendersi conto che la disinstallazione del sistema operativo per trasformare l’androide, programmato per reagire in un certo modo, in essere umano che lo dovrebbe fare per libera scelta, non potrà che coincidere con la fine del suo potere, sopraffatto sì dall’amore, ma ancor più dalla sopravvalutazione di se stesso come uomo e come (s)oggetto d’amore.
Pare quasi di assistere a una versione claustrofobia e ancora più solitaria del ferreriano Il seme dell’uomo, con una sana cattiveria a permeare le dinamiche di coppia e, sfruttando con intelligenza la presenza di Stoya, a giocare costantemente con le aspettative pruriginose del pubblico, dapprima assecondate e poi, a partire da una cruda sequenza di stupro che rimescola le carte in tavola, prontamente disattese. Del resto, è estremamente interessante come di Stoya viene usato il corpo, spesso nudo ma mai realmente erotico, o per lo meno il più possibile de-eroticizzato. Il suo è un corpo che fluttua in assenza di gravità, è un corpo che ha bisogno di ricaricarsi, è un corpo immerso nelle luci, è un corpo che anche quando esprime apertamente malizia, desiderio, allusione e sesso rimane ben lontano dai cliché della pornografia e dall’esplicito, ma cerca e trova un qualcosa che – anche nei circuiti elettronici – si annida ben al di sotto della pelle. Il che è probabilmente in gran parte merito proprio di Stoya, realmente sorprendente nella sua capacità attoriale di tenere praticamente da sola buona parte del film sulle sue spalle. Peccato, dunque, che una riflessione politica così coerente e la centralità del suo personaggio vadano progressivamente incontro allo scioglimento più sbagliato e, per certi versi, contraddittorio, con un melenso finale in odore di melodramma e all’insegna del sacrificio che cozza totalmente con quanto visto in precedenza dirottando la storia dalle parti del romance hollywoodiano à la Passengers. Ribaltando peraltro sul co-protagonista, lo sloveno Sebastian Cavazza evidentemente non all’altezza del ruolo con la sua scarsa espressività negli sguardi e nella voce (tanto che a tratti sembra quasi che sia lui l’automa e Stoya l’anima), tutta l’ultima sezione in cui Ederlezi rising si sfilaccia e perde efficacia, fra errori di sistema e ultime passeggiate spaziali per ripristinare quell’ultimo microchip. Giusto in tempo per morire ed essere ricordato, ma senza nemmeno capire che probabilmente non ne valeva la pena, e soprattutto senza che la missione/cinema si possa dire del tutto compiuta. Non fino in fondo, per lo meno, con una rotta ben chiara e bene impostata che proprio sul finale sbanda per partire verso la deriva. E per questo, pur rimanendo Ederlezi rising un film pienamente interessante, scritto con acume e messo in scena con perizia, dispiace.
Marco Romagna, Andrea Bosco