Easy Rider è solitamente citato come una delle pietre miliari più emblematiche della New Hollywood, il movimento che, influenzato dalla controcultura statunitense e dalle ‘nouvelle vague(s)’ europee, ha riformato l’estetica e le tematiche del cinema statunitense. Nato a metà tra Mike Nichols e Arthur Penn con Chi ha paura di Virginia Woolf? e Il laureato da una parte e Mickey One e Bonnie & Clyde dall’altra, il cosiddetto Rinascimento Hollywoodiano ha partorito una serie di autori che sono essenziali all’inconscio cinematografico ancora oggi, non solo per l’influenza dei loro esordi ma anche per la potenza dei lavori recenti, da Scorsese a De Palma, da Romero a Schlesinger, da Rafelson ad Altman, Coppola, Cassavetes, Pakula, Friedkin, Peckinpah, John Huston, per certi versi Kubrick, e più tardi anche chi, come Ridley Scott, Spielberg e Lucas, si sarebbe aperto verso nuovi commerci cambiando per sempre l’idea di film d’intrattenimento di successo a livello globale. Easy Rider ha certamente un posto definito nella storia dell’industria cinematografica losangelina sessantottina in presa di coscienza tra gloria e decadimento (quell’industria magnificamente descritta da Tarantino in Once upon a time in Hollywood), ma il discorso sul film d’esordio di Dennis Hopper va al di fuori del semplice fascino culturale per l’inizio di una rivoluzione stilistica ed estetica. Il motivo del successo di pubblico e di critica del film, nato con la reazione di clamore alla prima proiezione a Cannes 50 anni fa che è stata commemorata quest’anno nella splendida cornice all’aperto e sul mare della spiaggia con il restauro in Cannes Classics/Cinéma de la Plage, è, visto col senno di poi di mezzo secolo di cambiamenti culturali, probabilmente per come è riuscito a catturare alla perfezione un punto di vista. Giusto due anni prima, Hopper e Peter Fonda avevano lavorato fianco a fianco in The Trip di Roger Corman, con Fonda protagonista e Hopper co-protagonista e assistente alla regia, un film che tentava di descrivere, usando tecniche abbastanza rudimentali rispetto alle sperimentazioni nella psichedelia degli autori del New American Cinema per descrivere l’esperienza dell’assunzione dell’LSD, con la tagline «a Lovely Sort of Death». La sceneggiatura, scritta da Jack Nicholson sotto la guida di un Corman ispirato da esperienze con gli acidi, è stata veicolata in fase di produzione verso un messaggio ambiguo, per non davvero incoraggiare gli spettatori all’immersione nel mondo delle sostanze psichedeliche che stavano dilagando in quegli anni. Easy Rider dunque nasce, per quanto ci fosse alla base un contratto tra major (Fonda doveva fare un film in cui interpretava un motociclista), per adattare un altro sguardo, non necessariamente idealista ma più sociale e meno empirico, più basato sull’osservazione del fenomeno che sull’osservazione superficiale del Sé. Fonda e Hopper alla sceneggiatura, con Terry Southern, e anche protagonisti, motociclisti che spacciano cocaina, insieme, in buona parte del film, a Nicholson nel ruolo di un borghesotto “figlio di papà” che si fa trascinare nel loro mondo con tragiche conseguenze.
In un mondo di terribili rappresentazioni dell’esperienza psichedelica, che non riescono a scindere il vissuto spirituale-estatico dalla vera realtà della messinscena della visione, Easy Rider coglie lo spirito del tempo e dell’influenza della psichedelia quasi più nella totalità del film che nella celebre sequenza del ‘bad trip’. La drastica mente tossicodipendente di Hopper può essere un esempio notevole di come la necessità di traslare il vissuto in cinema possa non avere bisogno di una letterale trasposizione didascalica e perfetta dell’evento quanto di una rilettura in chiave emotiva e formale che, per quanto imperfetta, ha giustamente fatto scalpore nell’immaginario collettivo. La coppia di Captain America e Billy trova in Fonda la maschera del fascino tenebroso e in Hopper quella dell’idealismo più patetico; il film procede per vignette che umanizzano progressivamente queste due maschere, costruendo un sentiero di redenzione spirituale parziale mozzato dal tragico incontro conclusivo con la banalità del male e dunque la morte. Molte scene improvvisate (in particolare quelle dei falò notturni), montage di musica rock e motociclette per le autostrade che mostrano i paesaggi del deserto americano – è una retorica apparentemente datata, ma è nel montaggio non consequenziale e sgrammaticato del film che si trova la chiave di quest’imprecisione che al giorno d’oggi appare così mal invecchiata. È tutta una rappresentazione della sconnessione mentale dell’esperienza psichedelica. Sono messi in scena in maniera implicita e sottile l’uscire e il rientrare in piani di realtà apparenti e stabiliti, l’immaginazione che viaggia al di fuori dell’area della conversazione, il sudore e la fatica del non rendersi conto di come reggere correttamente il movimento corporeo nello spazio. Senza essere esplicito nella storia al di fuori dell’estetica del racconto, Easy Rider mostra l’esperienza psichedelica da dentro; al punto che, per buona parte del film, se se ne conoscono i retroscena produttivi e culturali, sembra quasi di vedere Hopper e Fonda uscire dai loro personaggi, dialogare come amici e colleghi all’interno del loro piano di esistenza e non di quello del film. La scena del vero e proprio ‘bad trip’ usa effetti ottici rivoluzionari per l’epoca, e tramuta in una sequenza compressa e veloce di piccole illusioni visive alternate a immagini realistiche la completezza di un’esperienza psichedelica negativa, tramutando il cimitero nel non-luogo ossessivo in cui si rompe la barriera tra presente (il trip) e futuro (l’effettiva morte dei personaggi, che blocca il loro percorso di raggiungimento della libertà). Ma è rotta anche la quarta parete, in modo definitivo, nel tragico momento in cui Peter Fonda, abbracciato alla statua della Madonna, le chiede perdono come se lei fosse sua madre, la reale madre di Fonda che si è suicidata quando lui aveva 10 anni – un momento di cinema reale/irreale che Hopper ha forzato a Fonda nell’estro creativo dell’improvvisazione sotto stupefacenti. Da allora l’esperienza psichedelica ha avuto numerose rappresentazioni anche nell’ambito più pop, da Paura e Delirio a Las Vegas a Black Mirror, da Mad Men a Gaspar Noè, che tra Enter the Void e Climax ha tentato due diversi punti di vista interessanti e semirealistici delle peggiori diramazioni possibili dell’assunzione di queste sostanze; ma in un certo senso, all’interno del cinema, forse la rappresentazione della droga fatta da Easy Rider è una delle più uniche e sottili, impareggiabile per accuratezza anche, probabilmente, perché derivata da una veritiera conoscenza della materia.
Dennis Hopper sarebbe poi tornato alla regia più volte negli anni successivi, maturando come autore ma mai raggiungendo un successo paragonabile a quello del suo illuminante debutto. È un film fuori da ogni controllo, destrutturato, immaturo, rappresentativo più del substrato della New Hollywood che della sua verve artistica (per quanto alcuni momenti siano vicini al contemporaneo Midnight Cowboy di John Schlesinger), ed è iconico più per quello che vuole essere o per quello che è rappresentato che per quello che è. I montaggi alternati veloci, i dialoghi improvvisati, gli attori non professionisti, l’istrionismo di Hopper e Nicholson, le canne durante i falò e i cartoni con le prostitute potrebbero non essere caratteristiche e immagini che delineano fortemente la concezione di un percorso sensato e connesso come quello dei più letterari capolavori di quel cinema, ma delineano con maggiore ispirazione e realismo un umore generazionale che… diciamocelo, altrimenti, come potrebbe essere vissuto da chi non c’era?
Nicola Settis