EAST END (2016), di Skanf e Puccio
Quando ho letto sul programma del Trieste Science+Fiction Film Festival della presenza di East End, il mio primo pensiero è stato che era una cosa positiva trovare in un qualsiasi festival italiano un cartone animato nostrano, perché l’animazione in Italia è un genere decisamente sottovalutato e poco supportato; e, da un certo punto di vista, prendere un film appartenente a questo genere e peraltro scaturito dall’Italia sembrava un’operazione coraggiosa, un passo importante per l’intero genere. Tuttavia quando mi sono informato di più leggendo la trama del film e i nomi delle persone coinvolte nel progetto, ho cominciato ad avere dei dubbi. Innanzitutto nel leggere la trama si viene a scoprire che i personaggi del film includono, esclusi i bambini protagonisti attorno ai quali gira tutto, alcune figure ispirate a simboli della cultura pop italiana (Nanni Moretti e Saviano, Papa Francesco e Berlusconi, e soprattutto Totti) ed estera (Obama e la Merkel, George Clooney ed Elvis Presley). Indagando di più, sono venuto a scoprire che tra gli sceneggiatori del film figura Federico Moccia, scrittore e regista famoso, anzi, famigerato, autore di drammetti lagnosi e storie d’amore adolescenziali. Da qui, ha cominciato a radicarsi in me il sospetto di un’operazione senza dubbio particolare, ma probabilmente fallimentare: nel momento in cui un film di satira, che vi sia o no di mezzo pure l’animazione, richiede l’ausilio in fase di scrittura di una persona che con la satira non ha niente a che fare e che anzi dovrebbe essere, di essa, vittima, il film di satira ha preventivamente perso. O forse no?
Il problema principale di East End non è tanto il fatto che sia stato animato o disegnato male (anzi, malissimo) o scritto male, anzi: è il fatto che East End esista e sia stato concepito. E l’esistenza del film è un problema assolutamente non legato alla sua qualità come prodotto superata la fase del soggetto perché, in effetti, da un punto di vista puramente tecnico, se si vanno ad analizzare le singole scene, i problemi non sono così tanti, forse. Il film riesce a far ridere, riesce a coinvolgere in una trama palesemente ironica, ma restando costantemente su ritmi smaccatamente televisivi — e in effetti East End pare che dovesse essere una mini-serie televisiva. Ma (e qui sta il difetto di base) per quale pubblico? Non c’è abbastanza cattiveria per scomodare paragoni con South Park (i cui sceneggiatori studiano con attenzione ogni particolare del loro delirio comico) e ci sono troppi riferimenti alla cultura adulta per legarsi invece al programma davvero per bambini; il tutto è poi condito con alcune sequenze caratterizzate da un umorismo (credo volontariamente) infantile che farebbe vergognare i vignettisti di Bastardidentro o gli sceneggiatori di The Nutshack, tra madri esploratrici che fanno sesso con gorilla e battute forzatamente finto-razziste ogni volta che appare in scena un musulmano. Le idee umoristiche tuttavia a volte riescono davvero ad avere successo e a far scaturire la risata, dal dolce cane chiamato Tupac ai video-corsi “come essere me” tenuti da Clooney, dalle varie gag legate al dirimpettaio cieco dei ragazzini (tra le quali il geniale – sul serio! – flashback in cui il cieco racconta di quando è stato picchiato e, dopo una dissolvenza, appare una scritta bianca su nero che recita all’incirca: “a causa della cecità del signor tal dei tali questo flashback non potrà essere rappresentato visivamente”) fino alla maniera scherzosa di intendere i rapporti tra tifosi della Roma e tifosi della Lazio, probabilmente la gag più lunga del film, una specie di macro-sottotrama in cui i tifosi della Lazio sono trattati tendenzialmente come subumani. Dunque, non sono tanto le idee a mancare quanto la capacità, le ossa o, volendo, la professionalità di mettere queste idee in scena, in cinema, su di uno schermo. Da questo punto di vista i registi Skanf e Puccio (veri nomi: Luca Scanferla e Giuseppe Squillaci) hanno la capacità sicuramente di riuscire a rendere divertenti alcune sequenze ma non hanno la capacità di renderle credibili. La risata scaturita, anche quando c’è, a volte sembra una risata imbarazzata, disperata, strozzata. Il problema è che le trovate umoristiche sembrano, anche quando magari non lo sono, o scopiazzate oppure adatte a un contesto diverso, che sia il contesto di una serie per bambini o il contesto di una serie per adulti, e non una democratica via di mezzo che finge di non annegare nel moralismo.
Un altro fattore importante di East End è la succitata presentazione costante di personaggi e figure della cultura pop italiana ed estera, trovata efficace a livello base (ogni volta che appare un personaggio apparentemente fuori contesto, la sala esplode in una fragorosa risata, e io ne faccio parte, lo ammetto) ma che funziona solo sul livello della reazione immediata e non della gag in generale. Tra i vari personaggi, si ha questa sensazione sicuramente con Trump, Saviano, Moretti e Elvis, ma probabilmente anche con Berlusconi, la Merkel, Bergoglio e Ratzinger: è divertente che ci siano, ma non è divertente il loro ruolo sullo schermo, quello che fanno, quello che dicono, tutto appare fuori contesto. Da questo punto di vista, complimenti a Moccia per l’auto-ironia nel proprio inserimento nella trama: infatti si rappresenta qui come uno scrittore che cerca di incastrare un bambino ricattandolo per fargli scrivere una storia d’amore tra bambini che poi diventa un suo libro, “il romanzo più maturo di Moccia”. Tuttavia, considerando il pubblico di East End un qualcosa di sicuramente separato e distante dal pubblico dei film e dei romanzi di Moccia, non può che venire il sospetto che lo scrittore altro non sia che un paraculo, che auto-criticandosi si può mettere su di un piedistallo e far apprezzare di più l’operazione generale del film ad un pubblico che richiede e preferisce altro. Nel frattempo però c’è la storia d’amore tra Ugo e Domitilla che è palesemente colma di luoghi comuni sentimentali à la Tre metri sopra il cielo, ed è proprio questa a dare l’idea che forse più che un’auto-ironia quella di Moccia è un “mettere le mani davanti”, un salvarsi dalle critiche, integrandosi in un qualcosa di più indipendente che però, forse, anzi, sicuramente, è solo e soltanto una cavolata priva di scopo, convintissima di essere già cult, quando più probabilmente è s/cult – e, per noi, lo rimarrà ancora a lungo, accanto a Tommaso, come esempio del brutto che si tramuta forse involontariamente in virtuoso.
Nicola Settis