earthearthearth. Tre volte terra, certo. Ma al contempo anche heart, cuore, ear, orecchio, art, arte. Già dal titolo l’occhio meccanico di Daichi Saito (ri)torna per dischiudersi alla ricerca dell’invisibile, ancora una volta insieme alla sensibilità musicale e ai polmoni del sassofonista Jason Sharp dopo aver svelato insieme il trascendente in quel già strabiliante Engram of returning premiato a Rotterdam nel 2016. Ma è appunto un (triplo) ritorno alla Terra, questa volta. Senza più elementi soprannaturali da intrappolare nell’emulsione, ma piuttosto a sfruttarne la fisicità per spingersi ben oltre i limiti della percezione, fino a instaurare un vero e proprio dialogo materico fra la celluloide e il terriccio, le rocce, la polvere, la luce, e non certo in ultimo con la manualità dell’essere umano che filma e manipola dell’immagine. Trenta minuti, proiettati dopo il forzato online di Rotterdam nell’unica e commovente copia in 35mm in concorso a Pesaro 2021, di un irripetibile viaggio multisensoriale nella fisicità, dalla corporeità del pianeta ai suoi elementi naturali, progressivamente sempre più carnale dal pulviscolo del suolo fino al primordiale ribollire del nucleo. Dalla superficie al cuore, e poi se possibile ancor più verso l’interno, fino alla più primigenia pulsazione del pianeta e della natura. Quella Terra così fragile e provvisoria che, partendo dalle silhouettes montuose delle Ande e dalla notte che diventa giorno, l’artista giapponese da sempre di base in Canada coglie e astrae nel suo eterno mutamento, nella sua provvisorietà, nella materialità polverosa che come fosse un fantasma dona forma, corpo e colori a quel suono che il sodale Sharp costantemente evolve, improvvisando dal puro rumore bianco alla melodia del sax. Con lo stesso senso del tatto che richiede la Bolex 16mm a molla – il film da inserire fra gli ingranaggi e il motore meccanico da azionare a mano – e con quella stessa materialità delle elaborazioni chimiche rigorosamente analogiche di una pellicola virata, alterata, gonfiata, invertita, solarizzata, negativizzata, sovrapposta, fisicamente modificata in fase di sviluppo fra l’imprevedibilità anche casuale del cross processing e l’opposto calcolo scientifico del bipacking che separa su due distinti strati di celluloide i colori caldi e quelli freddi. Un po’ come se l’astrazione psichedelica e ipnotica di Daichi Saito nient’altro fosse che l’unico possibile manifestarsi della concretezza, l’unica possibilità nella vita di vedere quello che c’è da sempre, e che da sempre non siamo capaci di notare.
eartheartheart è terra, aria, acqua e fuoco. Elementi naturali in costante genesi e modificazione, dalla linea pura dell’orizzonte nel primissimo chiarore dell’aurora alla luce ustionante e tormentata dell’eterno scorrere di ogni giorno fra le tempeste di sabbia e di sole. Continui e impercettibili mutamenti che solo la Bolex sembra essere in grado di notare e che solo le manipolazioni manuali di Daichi Saito sembrano rendere in grado di mostrarsi sullo schermo, in un documentarismo paesaggistico – o forse sarebbe meglio dire semplicemente osservazione – che per poter restituire tutta la sua concretezza non può che passare dalla pura astrazione, dal ghiaccio che diventa fuoco e dall’aria che ritorna sabbia, dal mare crepitante di calore e dalle gelide onde delle nubi, dal moto marino del profilo di una montagna che si svela solo per una frazione di secondo prima di tornare nel suo cono di indefinitezza, o ancora dallo scorrere lavico del bagnasciuga che chiuderà il film. Una marcia psichedelica verso il centro della Terra fatta di reagenti volutamente “sbagliati” in fase di sviluppo, di ripetute stampe ottiche e a contatto sempre più virate sui precedenti viraggi, di negativi e solarizzazioni che in montaggio si sovrappongono e dissolvono rapidi mostrando sempre più l'(im)percettibile del materiale. Non ciò che è ultraterreno, ma ciò che è in qualche modo superterreno, più che terreno, fenomenico, al di là delle nostre normali percezioni eppure immanente nell’essenza del mondo in cui viviamo, nei profili e nelle sagome dei monti, nella polverosità dei paesaggi e nella grana del 16mm elaborato e poi gonfiato in 35, nelle sovraimpressioni e nei ralenti, nei bianchi-neri e nei colori ipersaturi. Un qualcosa di invisibile all’occhio umano eppure in qualche modo intrinseco nel quotidiano miracolo – o forse nel quotidiano consumarsi e morire – di ogni singola giornata, di ogni singolo crescendo rossiniano che si muove nella forma e nel colore dello scorrere, fra la vita e la morte, fra la gioia e la catastrofe, fra la luce ed il buio. Fino a trovare in questa inedita riproducibilità dell’invisibile la materialità purissima dell’immateriale, la creazione, la terra, il cuore, l’orecchio, l’arte. Forse il senso stesso della vita, per molti versi quello del mondo, e senza dubbio un piccolo capolavoro.
Marco Romagna