Con Earth, presentato come di consueto nel Forum della Berlinale, Nikolaus Geyrhalter torna alla sua continua mappatura umana, apocalittica e necessaria, aggiungendo un tassello fondamentale al suo percorso cinematografico. Se nel lirico e a suo modo post-apocalittico Homo Sapiens – ancor di più che in questo Erte – l’apparente fragilità era quella propria dell’essere (umano) che questa Terra la abita e la modifica, assente dalle immagini e dai suoni eppure presente nell’incuria dei luoghi da lui modificati e abbandonati, qui il grande documentarista austriaco fa un piccolo passo (temporale) indietro, dischiudendo il suo occhio meccanico su una sorta di ideale prequel del lavoro precedente in cui l’uomo è fin troppo presente, e con lui sono presenti tutte le sue devastanti violenze contro il pianeta. Siamo al cospetto della deriva pulsante della capacità che l’uomo ha nel distruggere – e in un certo senso ricostruire – ciò che gli sta intorno, come in un eterno modificarsi, o più probabilmente come in un prendere possesso di ciò che non è nostro togliendolo ai nostri figli, erodendolo al futuro. È un altro sguardo verso un mutamento spaziale forse oramai irreversibile, quello di Geyrhalter, che declina un momento assolutamente esistenziale nel plasmare (quasi demiurgicamente) qualsiasi porzione di terra che possa esser disponibile. È un occhio assoluto e totale il suo, che si muove in giro per il globo fra le cave e le miniere, fra i prossimi siti abitativi e i vecchi depositi di scorie nucleari, fra il primo e il terzo mondo, quasi freddo e asettico, a tratti pornografico nell’entrare all’interno delle viscere di un meccanismo subdolo quanto devastante, eppure dolente e umanissimo nel suo prendere atto senza mai voler giudicare. Sette luoghi che sono sette meraviglie alla rovescia, che le tecnologie attuali rendono ogni giorno più irriconoscibili e mutilati. Sette ferite che sgorgano sangue in ogni attimo fino a quando sarà oramai estinto. Sette simboli del nostro presunto potere assoluto di distruggere e rifondare, di cambiare forma alla natura per farla soccombere alla nostra funzionalità. Sette punti di non ritorno, inizialmente inquadrati dallo zenit di altezze siderali, quasi se come il nostro occhio dovesse appartenere ad un altro sistema per poter comprendere.
Dalla California con una collina da spianare per creare nuove realtà abitative vista l’esponenziale espansione demografica all’Ungheria dove i lavori di una miniera di carbone spesso si fermano per “colpa” di qualche albero fossilizzato. Dalle nostre preziosissime risorse marmoree di Carrara che procedono a grandi passi verso un’evitabile estinzione alla cava di rame nel centro della Spagna che già ai tempi dei Romani veniva setacciata per poter trovare metallo. Dagli infiniti scavi del Brennero con tanto di vittime sul lavoro alle scorie nucleari stoccate in Germania senza troppe precauzioni, e ora da tenere il più possibile stabili per evitare tragedie. Fino al Canada, il sito forse più allucinato di tutti, controcampo ideale degli altri capitoli dove attivisti ambientalisti cercano di entrare in una cava bituminosa e misteriosa dall’accesso vietato. Tutto qui, forse. In questi, come in migliaia di altri siti in giro per il pianeta, l’uomo muove ogni giorno centocinquantasei milioni di tonnellate di terra, molte di più di quelle che la stessa natura può spostare. Parrebbe un delirio, legittimato dalle parole di chi interviene fisicamente, sulle macchine, sul lavoro, sulla terra stessa. Legittimato dalla società, forse anche dalle leggi, di sicuro dalla necessità della sopravvivenza e da quella ben più profonda – e apparente – che vede l’uomo padrone del destino di una porzione dell’universo. In una sorta di battaglia ontologica che vuole mezzi più grandi, dinamite più potente e spazi più infiniti. E, come molte delle – apparenti – guerre moderne, senza nemico ben delineato. Una conquista dell’inutile, forse talmente utile – il profitto – da annullare qualsiasi prospettiva di buon senso e rispetto nei confronti dello spazio che da decine di migliaia di anni ci ospita (o meglio, che noi occupiamo).
L’occhio di Geyrhalter è totale, dai lunghissimi (e altissimi) campi iniziali di presentazione del sito fino all’entrare dentro all’ingranaggio con la macchina da presa. Diventa parte del lavoro, lo ingloba e lo distanzia allo stesso tempo. Osserva la bellezza automatica delle cose nel momento del disastro; c’è l’oscurità trafitta da bagliori fulminei di luce, polvere e nebbia, fango e crepe. Le figure nel paesaggio cambiano vorticosamente, proprio come muta l’orizzonte. E poi le parole, spesso ingenui e surreali, di chi lavora a questo progetto trasversale perverso e polimorfo di sgretolamento progressivo della terra. Frasi iperboliche, quasi superomistiche, sicuramente funzionali, nella consapevolezza che prima o poi il marmo finirà, ma che nessun altro lavoro dà la stessa adrenalina. A tratti pare quasi di essere assorbiti sull’orlo del sublime, nella sua più completa e fragile nudità da una parte, e come nel delirio di onnipotenza più effimero possibile dall’altra. Rimane il frastornante rumore di fondo, continuo, delle macchine nella loro incessante catena di (s)montaggio che le vede protagoniste, fra cariche, detonatori e potenti muletti, nel dare una forma (?) futura al creato. Questo Earth, in fondo, potrebbe essere un controcampo ideale di Homo Sapiens, oltre che il momento (immediatamente) precedente. In gioco c’è sempre la provvisorietà spaventosa, quasi apocalittica, di un reale che non siamo più in grado di controllare; quasi come se fosse la nostra memoria stessa a rischiare di scomparire nell’idea folle di rendere più fragoroso il nostro infausto passaggio. Anche noi un giorno saremo fossili almeno quanto gli alberi che oggi abbiamo intorno e che sembrano un fastidio per chi deve girarci intorno, e se qualcuno giorno arrivasse forse potremmo anche noi essere sradicati dalla nostra terra in nome di un altro delirio. E tutto sarà sempre più vorace e veloce, senza alcun appiglio. Alla dialettica dunque una possibile risposta a tutta questa terribile fisicità messa in campo, a questo spettro informe di progresso che il cinema tenta di cogliere in presa – violentemente – diretta.
Erik Negro