21 Agosto 2017 -

DUNKIRK (2017)
di Christopher Nolan

La guerra è una striscia di Moebius, è un eterno ritorno al punto di partenza, è una dimensione incubale fatta di bombe e di attacchi improvvisi. La guerra è un viaggio nella paura, nel dolore, nella devastazione. La guerra sono siluri, sottomarini, aerei, esplosioni; la guerra è il pericolo che arriva da ogni parte, è il caos, è la perdita di ogni tipo di cognizione. Mentre infuria la battaglia non si capisce più dove sia il cielo e dove sia la terra, quale sia l’alto e quale il basso, dove sia il mare e dove sia la spiaggia. Basta un attimo, uno scoppio, un proiettile, una scheggia, e la vita lascia il passo alla morte, il soldato lascia il passo al cadavere riportato in spiaggia dalla marea, il figlio atteso dalla madre lascia il passo alle lacrime sulla sua fotografia.
Non è tanto la storia ciò che conta in Dunkirk, e forse nemmeno la Storia, quella con la S maiuscola, che pure Christopher Nolan rimette minuziosamente in scena in un suo capitolo fondamentale non solo per la ‘sua’ Inghilterra. E contano solo fino a un certo punto anche i personaggi, corali al punto da non poter distinguere un reale protagonista nel groviglio di narrazioni e di star coinvolte, ma al contempo necessariamente spersonalizzati, perché nella guerra si è tutte pedine, perché nella guerra non ci può essere reale vitalità, perché nella guerra si diventa un ammasso informe di esseri umani tutti uguali e chiusi in una divisa, sporchi di fango nella speranza di poter sfuggire alla morte ancora per un po’.
Era il tempo della (quasi) disfatta Alleata del 1940, con la necessità di salvare oltre 300mila soldati dai territori francesi assediati dai nazisti riportandoli verso le coste britanniche. Il porto di Calais, punta ultima dell’Europa continentale, era già caduto in mano ai tedeschi, e alle truppe Alleate non rimase altra scelta che raccogliersi nella vicina Dunkerque, in inglese Dunkirk, nella speranza di riuscire a fare attraversare la Manica a quanti più uomini fosse possibile utilizzando anche e soprattutto imbarcazioni di fortuna, pescherecci di civili pronti a rischiare la pelle per salvare i propri figli. Dalla riuscita di questa evacuazione, gli Alleati si potranno riorganizzare per tornare più forti e coesi a sconfiggere il nazifascismo, ma tutto questo, intelligentemente, Christopher Nolan non lo dice, preferendo aprire senza alcun cartello esplicativo sull’eterna medias res di una fuga sulla spiaggia, di un aiutarsi fra sconosciuti, di un soffrire insieme tentando disperatamente di sopravvivere mentre si avvicinano le missioni di soccorso.

È questo l’aspetto che, forse ancor più dell’importanza storica dell’episodio messo in scena, fa di Dunkirk un grandissimo film: il nuovo e straordinariamente ambizioso lavoro di Christopher Nolan è prima di tutto un’esperienza immersiva che scaraventa lo spettatore nel cuore dei combattimenti, nell’orrore, nella paura della guerra, lavorando direttamente sulla percezione sensoriale, utilizzando la regia e la messa in scena come inarrestabile veicolo di emozioni spesso contrastanti e ragionando in maniera mai così compiuta sul tempo, sulla sua percezione e sui suoi incastri. Dunkirk, radicalizzazione del cinema dell’autore britannico e probabile definitiva maturazione delle sue ossessioni sulla cronologia degli eventi, sul sogno e sulla moltiplicazione dei punti di vista, è una progressione sensoriale ascendente e apparentemente infinita, è un trattato di messa in scena fatto di astrazione e spettacolarizzazione, è un monumento all’immagine e alla tecnica, ma è anche e soprattutto un resoconto universale dell’orrore fatto di immagini ad altissima definizione (il film è stato girato interamente su pellicola 70mm, della quale oltre il 70% in IMAX70 a 15 perforazioni per fotogramma: a oggi Dunkirk è il lungometraggio con la maggiore qualità di ripresa nella storia del cinema) e di un sonoro fatto di pochi dialoghi e molte scale Shepard, musicate fra il tappeto e l’illusione acustica da un Hans Zimmer mai così minimale e mai così integrato nel linguaggio cinematografico, al punto di essere onnipresente ma mai invasivo, e anzi fondamentale per l’efficacia del comparto audiovisivo.
È un film che ha assoluto bisogno della sala, Dunkirk, di uno schermo che sia il più grande possibile, del Dolby Atmos che avvolge con le sue casse sul soffitto e sotto le poltrone immergendo completamente lo spettatore nella visione, e preferibilmente di un supporto in pellicola, la cui luminosità e profondità nei colori non sarà mai raggiungibile per una proiezione digitale. Perché Dunkirk è un film che, fra le pieghe storiche e (anti)belliche, fra l’attesa e la missione da compiere, fra la paura e l’eroismo, sfrutta il mezzo cinema e ragiona compiutamente sul mezzo cinema, sui suoi formati e sui suoi progressi tecnici, sulla sua natura di esperienza e di evento sempre nuovo, e non certo in ultimo sulla capacità della messa in scena e della finzione (già diversi anni fa, del resto, Godard rimarcava come il cinema fosse “la verità a 24 fotogrammi al secondo”) di creare un qualcosa di ancor più vero della stessa realtà.
Non ha particolari verità da svelare, Dunkirk, né vuole farlo: non è la guerra come spirale di delirio di Full Metal Jacket, non è l’ipocrisia di chi manda (a morte) una missione di soccorso per il Soldato Ryan nel tentativo di riportarlo a casa dopo le cadute di tutti i suoi fratelli, e non è nemmeno, pur lambendola, La sottile linea rossa che sta fra la lucidità e la follia di chi la combatte. La straordinarietà del film di Nolan non sta nei suoi messaggi, ma va ricercata in una messa in scena che va ben al di là della perfezione tecnica fine a se stessa per assurgere a devastante esperienza multisensoriale, a un inarrestabile e progressivo calderone emotivo che trascina letteralmente lo spettatore sulla spiaggia, nei mari e nei cieli, nello shock delle esplosioni, nella paura di chi vede la propria vita appesa a un filo. Christopher Nolan forse non sarà un intellettuale sopraffino come altri suoi colleghi, ma è un assoluto maestro della tecnica cinematografica, e soprattutto è sempre stato un regista estremamente spettacolare. Mai come nel caso di Dunkirk la spettacolarizzazione non è “mera” parte del film, ma ne è il vero e proprio cuore, il senso più intimo, la condizione necessaria per penetrare l’animo di chi lo guarda e portarlo via, sotto (o sopra) i bombardamenti, nella cabina di pilotaggio di uno Spitfire, o ancora nel bel mezzo della Manica, a solcare il mare rischiando la vita per dare il proprio contributo personale alla causa.

Dunkirk è cinema purissimo, è un ribollire di immagini magnetiche e magniloquenti ben al di là di qualsiasi loro possibile concettualizzazione o narrazione, e in questo senso il kolossal bellico di Christopher Nolan potrebbe forse essere ambientato in qualsiasi battaglia, in qualsiasi teatro di guerra, e non necessariamente nella Dunkirk che da sorta di Caporetto Alleata fu base di partenza per riorganizzarsi sulle ali del rinato spirito di libertà e andare di lì a pochi anni, con l’aiuto degli Stati Uniti e delle Resistenze, a mettere definitivamente Hitler e Mussolini alle corde. Eppure di Dunkirk è fondamentale anche la valenza simbolica, il ruolo di punto di non ritorno nella Storia britannica, d’Europa e del mondo intero. È stato il momento del ribaltamento, è stato un nuovo inizio, è stato quell’istante in cui ci si è toccati e ci si è sentiti ancora integri, caldi, vivi. Orgogliosi, e finalmente pronti.
I tre punti di vista scelti da Christopher Nolan per mettere in scena il suo Dunkirk sono la terra (o meglio il Molo), l’acqua e l’aria. Ma è un altro l’elemento naturale predominante, quello che unisce tutti gli altri nell’orrore: il fuoco. C’è il fuoco dei bombardamenti, c’è il fuoco dei siluri, c’è il fuoco che gli aerei continuano ad aprire uno sull’altro, c’è il fuoco delle fiamme che avvolgono chi cade, e pure sulla superficie del mare, quando si allarga una macchia di nafta, sono sempre gli stessi il crepitio e il bruciore. Nel portare alle più estreme conseguenze il suo lavoro sul tempo, Nolan procede a braccetto con le fiamme della morte, perché solo la morte annulla le distanze temporali, ed è la paura della morte ciò che più di tutto modifica le percezioni, fra una nave arenata in attesa della marea che diventa trappola letale, un aereo colpito che non può che cadere in mare oppure fra le armi nemiche e un peschereccio diretto esattamente verso il centro dell’inferno. Una settimana sulla spiaggia, nell’intreccio e nelle percezioni, può coincidere con un giorno fra i flutti, oppure con una sola ora di volo: è sempre la cittadina francese di Dunkerque il catalizzatore, è sempre la stessa battaglia che lì infuria, sono sempre le stesse persone che attendono di essere salvate, nutrendosi delle proprie speranze e vedendole costantemente frustrate. C’è chi di guerra impazzisce fra l’isteria e lo shock, c’è chi ruba una divisa e si finge di un’altra nazionalità pur di andarsene, c’è chi si lancia con il paracadute, c’è chi organizza l’evacuazione fra continui assalti e affondamenti e si fermerà anche dopo la riuscita dell’operazione per aiutare gli alleati francesi, c’è chi sente il bisogno di partire per conservare la memoria di un figlio che non ce l’ha fatta salvando quelli come lui, c’è chi continua a volare per ciò in cui crede pur sapendo che finirà il carburante e c’è chi, dopo aver perso un amico, trova ancora la forza e l’umanità per mentire – “Si salverà” – a chi di certo non lo voleva uccidere.
La narrazione non lineare di Nolan torna sempre negli stessi punti, torna alle stesse (eterne) esplosioni, torna agli stessi (eterni) schianti, come se la guerra fosse un infinito istante, come se non ci fossero un inizio e una fine, ma solo l’orrore di un interminabile momento. Con la moltiplicazione dei punti di vista, Christopher Nolan procede per rarefazione degli eventi, astraendo in un crescendo rossiniano ogni singola fase dell’operazione Dynamo fino a giungere alla più pura essenza della battaglia, portata sullo schermo come stravolgimento dei sensi. Si tratta senza dubbio del progetto più ambizioso del regista britannico, e probabilmente anche di quello più maturo. Un film profondamente europeo, con il quale Nolan allontana quei piccoli limiti concettuali di marca hollywoodiana fatti in sostanza di divisione troppo netta fra buoni e cattivi che più volte erano stati d’intralcio nella sua autorialità. E poco importa, a questo punto, se sul finale spunta un briciolo di retorica nel ritorno a casa dei soldati che si aspettavano fischi e hanno invece trovato felicità e acclamazioni: Dunkirk è altro, è l’attesa di una marea, è lo stordimento dopo un’esplosione, è l’orrore della guerra messo in scena nella sua drammaticità totalizzante. Dunkirk è sangue, è un grido strozzato, è un’impressione, è dolore, è una clessidra, è l’orgoglio del soccorritore, è la gioia di chi viene soccorso. Dunkirk è una panoramica, è un volo radente, è una traversata che sembra infinita, e che infinite porterà le cicatrici di quel giorno. Dunkirk è tutto Christopher Nolan, al massimo del suo splendore.

Marco Romagna

“Dunkirk” (2017)
106 min | Action, Drama, History | UK / Netherlands / France / USA
Regista Christopher Nolan
Sceneggiatori Christopher Nolan
Attori principali Fionn Whitehead, Damien Bonnard, Aneurin Barnard, Lee Armstrong
IMDb Rating 8.4

Articoli correlati

ESTERNO NOTTE (2022), di Marco Bellocchio di Marco Romagna
THE BRUTALIST (2024), di Brady Corbet di Marco Romagna
THE POST (2017), di Steven Spielberg di Marco Romagna
L’AMORE SECONDO ISABELLE (2017), di Claire Denis di Elio Di Pace
NOSTALGIA (2022), di Mario Martone di Massimiliano Schiavoni
IL GIOVANE KARL MARX (2017), di Raoul Peck di Massimiliano Schiavoni