DUNE (2021), di Denis Villeneuve

L’estate scorsa, Tenet sarebbe dovuto essere un film simbolico per il mercato, un blockbuster autoriale-spettacolare con lo scopo di riportare il pubblico in sala, dopo un periodo storico in cui è andato in disuso uscire di casa per vivere immagini grandi e spaventose a differenza di rimanere nella propria cameretta a esperire immagini piccole e accomodanti. Il mondo, fuori, del resto era (è?) gremito di pericoli a sufficienza. Eppure, lo spy-movie fantascientifico di Nolan è risultato per molti versi un fallimento. Pur avendo quasi raddoppiato al botteghino l’altissimo budget dato dalla Warner Bros, la major americana che più punta al momento sulla sala (mentre Disney punta tutto o quasi sul servizio streaming online), Tenet ha deluso le aspettative della spettacolarità, è risultato a molti ridicolo e raffazzonato, pseudo-intellettuale e pseudo-intrattenente invece che intelligente e indimenticabile. Non fu un caso commerciale estremo come altri progetti originali di Nolan, soprattutto Inception, quanto un unicum produttivo, che per avere un introito soddisfacente che potesse restaurare la speranza nell’attualità della sala cinematografica avrebbe dovuto probabilmente superare le più rosee aspettative – il risultato dai soli biglietti dei cinema è stato ben lontano dal pareggio. È stato un evento, sì, ma già in molti se lo ricordano male, come se fosse avvenuto in un non-tempo o un non-luogo resi evidenti dai disturbanti andirivieni che ci hanno controllato la vita nei tempi del Covid-19. Dune di Villeneuve (coproduzione con Legendary Pictures) è presumibilmente un tentativo analogo per l’autunno a venire, un progetto transmediale che prevede già almeno un sequel, un fumetto e una serie TV spin-off che andrà su HBO Max. È tratto dalla prima metà (da cui la necessità del sequel) del romanzo di culto di Frank Herbert, primo del “ciclo di Dune”, che è da più di mezzo secolo reputata una delle più emblematiche saghe di fantascienza, da cui fu tratto il terzo film di David Lynch, il Dune del 1984, che fece fallire la De Laurentiis che si aspettava di creare un franchise à la Star Wars (a sua volta influenzato dai testi di Herbert) e che portò l’autore di Eraserhead a ripensare il suo percorso intraprendendo, dal seguente Velluto Blu in poi, il percorso che ha consacrato il suo immaginario fino alla storia del cinema contemporaneo. E prima di Lynch ci provò Alejandro Jodorowsky, con un famigerato Dune surrealista che non vide mai la luce, un’opera che a parlarne sembra impossibile che fosse un progetto reale: colonne sonore originali di Magma e Pink Floyd, nel cast Orson Welles, Mick Jagger e Dalì, scenografie di H.R. Giger e una riscrittura psichedelica atta a mettere in trance lo spettatore, in un ambizioso (pretenzioso?) tentativo di mettere in atto un’ipnosi trasfigurativa spirituale col solo potere di suono e immagine. Trarre un film da questo romanzo sembra un progetto maledetto, donchisciottesco. Come si può dare giustizia a una ‘space opera’ che dovrebbe avere un che di definitivo o di rivoluzionario nell’approccio al racconto per funzionare, visto che la sua mitologia non appare riconducibile a dei veri generi cinematografici (a differenza di Lucas che si rifà agli western e ai jidaigeki)?

La parte di storia coperta dal film di Villeneuve è la seguente: nel distante Undicesimo millennio, l’umanità si è estesa nell’universo creando un Impero intergalattico, ove il viaggio interstellare è diventato regolare grazie alla Spezia, una sostanza allucinogena miracolosa che si trova solo nell’immenso deserto del pianeta di Arrakis (detto Dune), sacra per i suoi abitanti, i Fremen, che vivono di stenti in un habitat tutt’altro che rassicurante. La dittatoriale casata Harkonnen, dal pianeta Giedi Prime, ha avuto per anni il dominio sul commercio della Spezia tra tutti i pianeti. Ma quando l’imperatore dell’universo comincia a temere che il carismatico Duca Leto Atreides, capostipite della casata storicamente rivale degli Harkonnen, lo possa sostituire, egli decide di far ritirare le armate degli Harkonnen su Arrakis per mandare gli Atreides al loro posto, creando un pretesto per una guerra commerciale sulla Spezia che annienti la concorrenza. L’agguato pianificato funziona, ma ciò che il Barone Harkonnen e l’imperatore non possono sospettare è che il figlio di Leto, il protagonista Paul, sia destinato da tradizioni vecchie come il tempo a essere l’Eroe di una profezia, il Kwisatz-Haderach, l’unico che può portare i Fremen a riconquistare la Spezia in una vera e propria ‘jihad’ per salvare il cosmo. Insomma, il romanzo Dune è un conglomerato allucinogeno di simboli spirituali, perlopiù di matrice islamica (ad esempio: Muad’Dib, l’epiteto messianico che viene dato dai Fremen a Paul, è la parola araba che significa “maestro”), e nel contempo un’avventura di esplorazione in un ambiente immaginario ostile. La fantascienza era all’epoca sovente un genere letterario reputato sensato solo se in forma satirica, il resto era fatto da raccontini di serie B; la critica al sistema capitalistico-colonialista del testo di Herbert è stata rivoluzionaria per la serietà complessa di cui era capace, pur perdendosi tra conflitti stellari, navicelle spaziali e invenzioni fantastiche. A non funzionare nel film di Lynch non fu tanto la visione del regista quanto la costrizione dei tempi nel montaggio; a una prima metà prevalentemente fluida e comprensibile si contrappone una seconda parte velocizzata, confusa, in cui i personaggi smettono di essere personaggi e la guerra santa portata avanti dai protagonisti sembra spesso muoversi per inerzia, senza convinzione. Da un punto di vista visivo, il Dune di Lynch è vivace, vitale, magari datato negli effetti speciali e kitsch in alcune trovate di montaggio, ma colorato, in qualche modo genuino e, se visto ben proiettato, comunque in qualche modo spettacolare. Spettacolare è anche il film di Villeneuve, o meglio, è solenne, imponente, mastodontico. Ogni inquadratura vuole avere un peso notevole. Il cast è stellare e attuale, mischia stelle emergenti come Zendaya e Timothèe Chalamet ad attori di culto come Charlotte Rampling, e di contorno ci sono Josh Brolin, Javier Bardem e Oscar Isaac (protagonista quasi quanto Servillo di questa edizione del festival di Venezia), anche se la più brava è insospettabilmente Rebecca Ferguson nel ruolo della madre di Paul; la colonna sonora che Lynch aveva fatto curare ai Toto e a Brian Eno è qui invece del sempre assordante Hans Zimmer che, complice del sound design di Theo Green, costituisce l’aspetto più immersivo e impressionante di tutta l’impostazione da kolossal del film di Villeneuve; le scenografie e i costumi caratterizzano con cupa eleganza un mondo coerente cogli ampi temi del ciclo di romanzi. Dal Lido i primi pareri sono contrastanti: molti fan dei romanzi sembrano soddisfatti dall’immaginario, i fan di Lynch (come il sottoscritto) tendenzialmente preferiscono tenersi stretto il film dell’84 con tutte le sue ingenuità, i fan di Villeneuve sono alcuni confusi, altri entusiasti, altri delusi, e soprattutto, cosa importante per prevedere se il film possa essere utile a riportare le persone al cinema, chi non sapeva niente della storia di Dune né dai romanzi né da Lynch non ha capito molto della trama.

Non è difficile dunque giungere alla conclusione che, come sovente capita in opere cinematografiche o televisive che sono riproposizioni audiovisive di una storia che è già stata raccontata in una o più forme, l’apprezzamento di Dune: part one dipenderà più che mai dalle soggettività dei singoli spettatori e dal loro legame più o meno esistente con quello che è il mito della storia. Se queste parole sembrano fredde, è perché è difficile non essere freddi nei confronti di quello che è, poi, l’esperienza effettiva della visione. La sua spettacolarità è evidente quanto l’aritmia anempatica della sua sceneggiatura, che in buona sostanza ri-racconta gli eventi della prima ora del film di Lynch prendendo le sue scene e dilatandole nel tempo, ingrigendole nello spazio, spersonalizzando i personaggi. Per chi conosce la trama, le sorprese sono poche e l’impatto visivo è innegabile ma rinforzato più dal budget che da una regia che trascina lo spettatore dentro l’epica del racconto. È un’opera mortuaria, molto contemporanea, tribale nell’alternanza serrata tra occidente e oriente, pace e violenza, contemplazione e incubo. C’è a tratti un’atmosfera affascinante, come in queste sequenze: la presentazione del Barone Harkonnen che cita la prima comparsa di Marlon Brando in Apocalypse Now, l’attacco degli Harkonnen (l’unica scena d’azione del film a non essere fiacca e anaffettiva, ma in realtà forse è la miglior scena di pura azione girata da Villeneuve), l’arrivo del marchingegno assassino mandato dagli Harkonnen a uccidere Paul, i dialoghi tra Paul e la madre nel deserto (le uniche scene realmente sentimentali) e l’inizio della visione in cui Paul vede se stesso in guerra con Chani, che diventerà la sua compagna Fremen. In queste sequenze, esclusa quella bellica, le tempistiche ipnotiche riescono a rievocare la natura allucinatoria e spirituale del dramma senza sembrare puro mezzo senza direzione. Sembrano in linea con la natura sacrale di Herbert senza sacrificare o nascondere né l’intento hollywoodiano né gli stilemi che Villeneuve porta avanti perlomeno dal suo passaggio agli USA con Prisoners in poi. Durante il resto dell’avventura, l’immaginario è scarnito fino a essere realmente povero di appigli iconograficamente appaganti, i rapporti umani sono privati di qualsiasi empatia, i vermoni giganti in CGI non sono belli come le creature di Carlo Rambaldi e la color correction delle scene oniriche è spinta all’inverosimile, quasi parodistica, e soprattutto la guerra non ha nulla di leggendario, epocale, sacro. Non è una messinscena di un conflitto, ma un’approssimazione cadaverica (seppur gigantesca) di una messinscena, che spesso, stranamente, è addirittura goffa. Il fatto è che in tutto ciò non si può non essere curiosi per la seconda parte, in cui il percorso spirituale che porterà Paul a divenire il Kwisatz-Haderach e il suo rapporto con Chani diventano la parte più importante della storia. Però è anche terribile che sia stato scelto di interrompere il film proprio all’incontro tra Paul e i Fremen, all’inizio vero della storia. Questi 200 milioni di dollari di budget sono andati a costruire un’incredibile introduzione, un prologo che per sua stessa natura è difficilmente classificabile, il cui impatto probabilmente si capirà solo quando uscirà in sala. È un prodotto più che un’opera artistica, il cui valore non è inesistente, ma sfuggente. Chissà se Villeneuve in futuro riuscirà a trasportarci nei meandri della mente di Paul e della ‘jihad’ dei Fremen con l’occhio allucinogeno che la Spezia, simbolo letterario immortale, si meriterebbe. Ma soprattutto, chissà se usciranno tanti film di Dune quanti la Warner aveva proposto all’inizio…

Nicola Settis