DUNE (1984), di David Lynch
Presa la decisione di coprire l’intera filmografia di Lynch su questo sito, non possiamo che sfruttare le proiezioni al Trastevere Festival a San Cosimato per decidere l’ordine con cui continuare, tra le 60 notti di cinema sotto le stelle del cielo romano che includono 4 film del regista. Oggi è il 4 luglio 2017 e stasera verrà proiettato il primo di questi 4 film, ovvero Dune.
Tratto dal più celebre e venduto libro fantascientifico di tutti i tempi, primo di un complesso ciclo di romanzi di Frank Herbert dalla complessa stratificazione mitologica, questo film sarebbe dovuto essere diretto dall’autore cileno Alejandro Jodorowsky, forte del successo di El Topo (1970) e La Montagna Sacra (1973). Il regista sudamericano aveva costruito una sceneggiatura ambiziosissima alla base di un budget presupposto folle, che avrebbe incluso, in un film di 3 ore, una colonna sonora originale composta dai Pink Floyd e dai Magma di Christian Vander, una scenografia curata da Hans Ruedi Giger e un cast a cui avrebbero fatto parte, tra gli altri, Mick Jagger, Salvador Dalì, Orson Welles e uno dei figli di Jodorowsky. Il film gli fu commissionato negli anni ’70, ma non vide mai la luce: troppo folle, troppo libero, inaccettabile. Si sarebbe strutturato come un viaggio spirituale, con lo scopo di cambiare la vita degli spettatori. L’epoca era quella in cui crescevano e nascevano i primi blockbuster e i primi franchise, con Spielberg diventato ormai celebre grazie a Lo squalo (1975) e Lucas che aveva cominciato la saga di Guerre Stellari nel 1977 – saga che sotto certi punti di vista si basava sull’unione assurda tra l’universo di Dune e la struttura narrativa e simbolica dei film di Akira Kurosawa, in particolare La fortezza nascosta (1958), con il termine “jedi” come derivazione di “jidaigeki”, “film di samurai”. Con la morte del progetto di Jodorowsky, la casa De Laurentiis, soprattutto visto il successo di Luke Skywalker e compagnia, si misero in contatto con Lynch, che aveva da poco detto di no proprio a Lucas dopo che questi gli aveva offerto di dirigere Il ritorno dello Jedi (1983). Lynch era forte del successo di pubblico e di critica di The Elephant Man (1980), un film anacronistico che fu capace di unire con forte intensità i personalismi dell’autore di Missoula con una trama biografica e storica dal forte senso morale, e con la sceneggiatura di Dune il regista tentò la stessa osmosi tra ossessioni pittoriche e spirituali e materiale facilmente commercializzabile. Il film costò molto alla De Laurentiis, sia a livello economico che tempistico (la produzione durò oltre 3 anni), con un cast ricchissimo che includeva Sting, Jürgen Prochnow, Max Von Sydow, Patrick Stewart, Sean Young, Brad Dourif, Virginia Madsen, Silvana Mangano, Everett McGill, che ha poi lavorato di nuovo con Lynch in Twin Peaks e Una storia vera (1999), Jack Nance, già protagonista di Eraserhead (1977), e il giovanissimo e all’epoca sconosciuto Kyle MacLachlan, ora riconoscibilissimo come il Dale Cooper di Twin Peaks e prima ancora come il Jeffrey Beaumont di Velluto Blu (1986). Quando il film uscì, fu uno spaventoso flop al botteghino, causando una rottura nella De Laurentiis e innescando reazioni negative anche da parte del più importante critico cinematografico americano dell’epoca, quel Roger Ebert che insieme a Gene Siskel curava il principale programma di discussione filmica della storia statunitense. Quando Jodorowsky entrò in sala era disilluso e ancora pieno di delusione e sconforto per il non compimento della propria complessa ambizione, ma, così lui stesso racconta nell’informativo e interessantissimo documentario Jodorowsky’s Dune (2013) di Frank Pavich, il regista uscì dal cinema felice perché “il film è una merda”; e comunque la sua opera inconclusa diede la possibilità di un lancio a molte delle persone coinvolte: Giger fece la scenografia di Alien (1979) per esempio, e molti ancora parlando del suo Dune come del “miglior film che non è stato mai fatto”. Ma perché il film di Lynch era una merda?
Come sempre in Lynch, il retroscena di produzione è importantissimo, e qui più che mai visto l’impersonalismo alla base e visti i problemi legati a Jodorowsky e a De Laurentiis. Il film Dune sarebbe potuto non esistere: i diritti sul romanzo stavano per scadere, quando Lynch ha detto di sì pur non avendo letto il romanzo e pur non avendo mai considerato la fantascienza come un genere su cui avrebbe lavorato. La sceneggiatura originale fu curata dal regista con l’aiuto di altri due scrittori più appassionati del progetto, e il lavoro su di essa durò 6 mesi con 5 nuove versioni dopo quella originale, tutte scritte da Lynch da solo partendo dal materiale scritto con gli altri. Il budget di 40 milioni di dollari, impossibili da non confrontare con il risultato al box office di 31 milioni, gli diede l’opportunità di sfruttare un’enorme quantità di comparse, con effetti speciali all’altezza del progetto (ma comunque datati se paragonati a quelli di Star Wars) e una serie incredibile di set costruiti apposta. Il montaggio conclusivo ammontava a più di 4 ore, superando di gran lunga la durata prevista per il progetto di Jodorowsky, che spaventava i produttori, e fu richiesto un secondo montaggio che riducesse il minutaggio portandolo e due ore e un quarto. Il film così è risultato veloce, anche troppo, fino a essere strampalato e quasi incomprensibile per chi non ha letto il primo romanzo del ciclo di Herbert, anche a causa di una certa verbosità. La saga di Star Wars, mentre il film veniva scritto e girato, concludeva la propria prima trilogia, e il pubblico degli anni ’80 aveva forse problemi a digestire un’avventura fantascientifica di tale portata senza la certezza di un eguale impatto sull’immaginario collettivo. Lynch ha tolto la firma da Dune, rendendolo l’unico suo film di cui si pente ufficialmente, l’unico suo film davvero minore, sia per gli appassionati del suo cinema sia per chi conosce a menadito il romanzo originale: è un’opera affrettata, che tenta straordinarie altezze ma rimane sempre in superficie, e neanche la colonna sonora curata dai Toto e da Brian Eno è riuscita a salvarla da un ritmo problematico per la soglia d’attenzione di una buona fetta di pubblico. Detto ciò, è difficile anche categorizzarlo pienamente come un brutto film. È un film non riuscito perché non è riuscito ad avere l’impatto che avrebbe dovuto avere, che è quello che forse avrebbe potuto creare il film di Jodorowsky, ma è un film di culto, è un film più importante che affascinante.
La storia è quella di Paul Atreides, che già dal nome esprime un forte dualismo tematico come quello che a Lynch interessa da sempre, con il nome tipicamente inglese e il cognome sci-fi derivato dal nome della figura mitologica greca di Atreo, figlio di Agamennone. È il 10191, e l’economia dell’intero sistema di pianeti mostrato è basata sulla diffusione della preziosa “Spezia”, e «chi [la] controlla […], controlla l’universo». Paul è un figlio nobile che non sarebbe dovuto nascere in quanto la sua esistenza sembra poter impedire la nascita dell’essere supremo che governerà l’universo, il Kwisatz Haderach (termine che è una distorsione dell’ebraico per “scorciatoia”), che dovrebbe nascere da incroci di sangue tra classi e casate. Paul deve insomma combattere per ottenere questo ruolo, sconfiggendo i rivali della sua casata e diventando Messia degli abitanti del pianeta Dune, in una continua jihad per conquistare il loro pianeta e l’intero impero. In mezzo a tutto ciò, si alternano storie d’amore, amicizie, combattimenti, tradimenti tra casate che sembrano replicare le dinamiche medievali in una versione trascendentale, e soprattutto un profondo spiritualismo, che probabilmente è quello che ha attirato Lynch sin dall’inizio. La forza di Dune, nonostante ormai sia dato per scontato che è un film sbagliato, sta in due caratteristiche: la prima è la capacità di Lynch di utilizzare le immagini (sia nella regia sia soprattutto nel montaggio e negli effetti speciali) per trasformare la confusione della sceneggiatura in un viaggio pittorico e surreale che superi le convenzioni narrative del genere; la seconda è l’impatto storico del film, che dopo il flop è diventato molto lentamente un film di culto a livelli tali che Dune è stato rivitalizzato in un progetto seriale a inizio anni 2000, con grande sorpresa e apprezzamento da parte dei vecchi e dei nuovi fan di Herbert.
Che non si capisca niente dall’inizio alla fine è probabilmente un dato di fatto, in fondo, di tutto il cinema di Lynch, almeno, sì, da un punto di vista leggero e superficiale, non analitico, anche se qui le ragioni sono altre; il fatto invece che il film sia pomposo nella propria esposizione di valori spirituali le cui origini sono anch’esse difficilmente immagazzinabili all’interno dell’intreccio narrativo magari è più difficile da accettare, ma bisogna contestualizzare il film nel periodo in cui è uscito, di nuovo, cercando di comprendere quanto un progetto cinematografico tratto da Herbert fosse anticipato e atteso nel periodo dopo l’innovazione portata dal romanzista statunitense. «La paura uccide la mente», alla fine, forse casualmente, riassume parte della produzione del regista, da Eraserhead a INLAND EMPIRE (2006); certe sequenze, come quella dell’arte della navigazione, con il “Navigator” mostruoso che vola nello spazio e ne spezza le leggi come il mostro/girino di Eraserhead che cade nel buio stellare finendo in una pozzanghera, o quella con la mano che compare nello spazio, sono dei veri tocchi visionari in un qualcosa che altrimenti può sembrare davvero piatto e plastico nell’ottica del cinema blockbuster di quei tempi. Dune doveva nascere come un qualcosa che potesse attrarre lo stesso pubblico di Star Wars, ma infine è diventato il suo gemello strano, un film “non per tutti”, con una visione oscura e complessa di un futuro impossibile da comprimere in una logica cinematografica di 2 ore. Forse è comunque un film da rivalutare, almeno per superare l’idea (questa, sì, sbagliata) che se un film è confuso è automaticamente imperdonabile, visto che comunque l’idea di un qualcosa di alienante per lo sguardo e per la mente è stata creata con successo, portando infatti Herbert a dire che il film gli è piaciuto, anche se magari non v’era la stessa profondità – e sì, anche qui, il problema è stato la produzione, il tempo, il montaggio. È difficile, insomma, decidere di entrare nel film al punto da interpretarne le scelte visive e concettuali o da cercare di carpirne il fascino, ma è sempre incredibile riuscire a capire come, pure in quello che indubbiamente è il capitolo più dimenticabile della filmografia del regista, Lynch sia riuscito comunque a prendere il proprio spazio, seppur minimo, al punto da rendere memorabile pure la più caotica e disorientante delle space operas. E Dune può sempre servirci come promemoria del fatto che la coesione e la grandiosità possono benissimo non andare d’accordo.
Nicola Settis