DUCKTALES (2017), di Dana Terrace e John Aoshima
DuckTales è un ritorno. Il 2017 è stato, sinora, un anno in cui, per svariati motivi casuali ma perfettamente integrati nel contesto socio-economico dell’organismo hollywoodiano, sono state messe in scena molteplici ridistribuzioni dell’inconscio collettivo: Blade Runner e Twin Peaks hanno trovato in 2049 e nella nuova stagione dell’opera di Lynch delle metamorfosi stilistiche e contenutistiche interessantissime e complesse, a prescindere dalle discussioni e dalle controversie che possono suscitare nei singoli spettatori/individui, e oltre a essi ci pare necessario parlare della rilettura di Muschietti di It di Stephen King, 27 anni dopo la prima trasposizione in Film TV. Tra i replicanti, la Loggia Nera e il terrificante pagliaccio ballerino Pennywise, tre simboli dell’immaginario universale dell’audiovisivo di massa si sono espansi, per ragioni meramente di espressività artistica nel caso di Twin Peaks, di rinnovamento degli stilemi della narrazione nel caso di Blade Runner e di ricerca di nuove vie nel rappresentare l’emotività adolescenziale in un’epoca sostanzialmente diversissima da quella in cui It fu messo per iscritto per quanto riguarda lo storico tomo di Stephen King e la sua datata versione televisiva resa storica dalla presenza di Tim Curry. Con DuckTales la questione è ancora diversa, per due ragioni: la prima è legata sostanzialmente al pubblico ricercato, composto non solo dai bambini – e sì, Blade Runner, Twin Peaks e It hanno sine aliquo dubio una buona fetta di appassionati “nostalgici” come buona parte degli spettatori che dovrebbero seguire in televisione DuckTales, ma trattasi comunque di un pubblico che ricercherebbe, nei remake/reboot/sequel del caso, soprattutto i contenuti e le coordinate estetiche dei riferimenti pregressi piuttosto che un umore di base in cui re-immergersi decenni dopo per riscoprire l’infante interiore; in secondo luogo, inoltre, anche se i personaggi di Blade Runner e It si basano su figure messe precedentemente su carta da letterati epocali come Dick e King, il mondo di DuckTales si basa su figure iconograficamente riconoscibili a livello ancor più ampio e universale, appunto perché i paperi della Disney sono onnipresenti nella mappatura inconscia dell’infanzia e della pre-adolescenza. Paperino, o Donald Duck, o zio Donald che dir si voglia, è nato nella storia produttiva della Disney nel 1934, ed è lentamente diventato il volto animalesco più riconoscibile dell’intero panorama della sua animazione, secondo solo a Topolino; ma, grazie a Carl Barks, uno dei più grandi narratori e fumettisti di ogni tempo, Paperino ha smesso di essere semplicemente il secondo personaggio Disney più celebre e seguito ed è divenuto una vera e propria figura semi-epica, protagonista di avventure mitologiche i cui aspetti favolistici e mitologici trovano ispirazione tanto nell’umorismo di Buster Keaton quanto nei poemi epici di Omero, tanto nel cinema di Orson Welles quanto a Charles Dickens, da James Hilton a Henry Rider Haggard. Inventando, ispirandosi a Canto di Natale, il personaggio di Paperon de’ Paperoni, Barks ha alzato gli standard della narrativa fumettistica, addentrandosi sempre di più in una ricerca profondissima di rappresentazione dell’insondabile, tra pirati e Maya, tra Stevenson e Wodehouse, influenzando, tra gli altri, Osamu Tezuka, Robert Crumb, Spielberg, Lucas e ovviamente altri artisti Disney come Daan Jippes e Freddy Milton. Ma se c’è un artista minimamente paragonabile a Barks, questi è senza dubbio il suo erede spirituale e artistico definitivo, Don Rosa.
L’italoamericano Rosa potrebbe avere poco a che fare col DuckTales originale principalmente perché i rispettivi esordi, per Rosa su carta e per la serie in TV, sono avvenuti nello stesso anno, il 1987, precisamente tre decenni fa. Ma è importante essere consci delle analogie e delle differenze tra i reciproci percorsi artistici: possiamo dire innanzitutto che Rosa ha preso, con rispetto e amore, i personaggi e le storie di Barks per poi edificare un mondo narrativo e stilistico di fumetti sotto certi punti di vista anche più complessi delle storie originali, approfondendo la filologia e la genealogia del mondo dei paperi con una ricchezza postmoderna di citazioni più o meno esplicite che vanno da Harold Lloyd o da Quarto Potere (1941), nell’epocale e imprescindibile Saga di Paperon de’ Paperoni (1994-1996), per noi senza alcuna ironia uno dei più importanti racconti esistenziali del ‘900, a Passaporto per Pimlico (1949) o Jurassic Park (1993), in un perpetuo lavoro di presa di coscienza intellettuale della scrittura per bambini, complessificata in ogni suo aspetto senza perdere la propria dimensione strettamente infantile e delicata. Dall’altra parte, DuckTales ha amplificato in maniera decisiva questa vera e propria dimensione, quasi sempre eliminando dalla narrazione Paperino, ma mettendo sempre al centro della storia Zio Paperone, come per tradizione Barksiana, e soprattutto Qui, Quo e Qua, bambini furbi e colti alle prese con una realtà di avventure rocambolesche, poco credibili, impregnate con lezioni morali. La figura pseudo-paterna ironica di Paperino era sostituita da una caratteristica spalla comica di nome Jet McQuack, un pilota di elicotteri ignorante che non fallisce mai nel tentativo di far ridere. Molti episodi erano raggruppati in sequenza come a creare una finta struttura da lungometraggio, per occupare uno spazio commercialmente conveniente nell’organizzazione del tempo di visione per i bambini nei pomeriggi pre-scolastici. Gli antagonisti della serie, inoltre, personaggi come Amelia, la Banda Bassotti e Cuordipietra Famedoro, sono sempre figure create da Carl Barks e che attraverso DuckTales hanno ritrovato un proprio spazio più definito nella memoria delle generazioni di chi aveva 11-12 anni o meno a fine anni ’80 e a inizio anni ’90, mentre Barks passava attraverso una crisi produttiva (ma non creativa…) in fase senile. DuckTales è indubbiamente un pezzo di Storia importante per la televisione Disney e per l’intrattenimento nella fase infantile di svariate generazioni, ma, ripensando alla complessità emotiva e testuale di Don Rosa, ci può risultare a volte difficile penetrare nei suoi ritmi, già datati e sorpassati a differenza della narrativa epica degli autori che l’hanno preceduta e succeduta.
Il ritorno di DuckTales nel 2017, con una serie ‘reboot’ che parte dal primo incontro di Qui, Quo e Qua con Zio Paperone, da un punto di vista commerciale è una boccata d’aria fresca nel panorama Disney. Ai personaggi viene ridata la loro dignità mischiando quello che DuckTales era originariamente con quello che i paperi hanno imparato attraverso le loro successive metamorfosi, non solo per quanto riguarda la lettura di Don Rosa ma anche prodotti meno significativi (per quanto a loro modo interessanti) come l’adolescenziale Quack Pack che mostra Qui, Quo e Qua come unità diversificate e non indissolubili, ‘teenagers’ semi-dannati che cercano un’indipendenza rispetto alla monumentale iconografia Disney che li ha bloccati in stereotipi – e, nonostante ciò, svariate trame di episodi di Quack Pack si rifanno direttamente (e giustamente) a storie di Carl Barks e dei suoi eredi americani ed europei. I primi due episodi, proiettati alla Festa del Cinema di Roma 2017, si concentrano su questo ipotetico primo incontro, spostando l’azione ai nostri tempi e prendendo da Quack Pack proprio la distinzione tra le personalità dei tre nipotini di Paperino, nonostante il loro legame rimanga stretto e quasi telepatico. Non sono adolescenti, ma più grandi rispetto alla loro rappresentazione barksiana: Qui (il rosso) è vitale e ingenuo, Qua (il verde) è pigro e amichevole, Quo (il blu) è il più centrale nella narrazione, impulsivo ma emotivo, immaturo ma cosciente. Il primo episodio si apre con Paperino che va a un colloquio di lavoro lasciando i nipotini alla casa-barca in cui sono sistemati, ma appena mette piede fuori casa capisce che Quo sta pensando di sganciare l’abitazione per navigare nel mare, verso l’avventura. Paperino non è escluso nella narrazione, anzi ne è parte integrante, come dimostrazione di un approccio affettivo più difensivo e meno austero di quello di Paperone, come creando un equilibrio tra due percezioni diverse di un possibile discorso sul racconto di formazione disneyano e dickensiano. Paperone non è da subito un eroe, per quanto comunque sempre amaro e parziale, che salva le vite dei nipoti dalla noia della quotidianità, bensì ha tutte le caratteristiche di egoismo e avidità curate da Carl Barks negli esordi e da Don Rosa per la maggior parte della propria carriera, a partire dalla Saga. Le lezioni morali non prescindono dalle avventure stevensoniane, bensì si integrano con esse, creando situazioni di tensione e umorismo perfettamente bilanciate, divertenti e intriganti, in linea con un ritorno dello spettatore più maturo a un certo tipo di approccio all’immagine animata che è quello del bambino – la ricerca di una risposta o di un incastro, l’emozione per la ricomposizione di un’amicizia o di un rapporto, il desiderio di vedere la soluzione di un mistero o di una circostanza. Non ci sarà una grande profondità nel susseguirsi delle storie, ma c’è un grande desiderio, forse in parte furbo ma soprattutto intelligente e posato, di mettere a confronto il passato imprescindibile con ul presente che i paperi di Barks li ha quasi lasciati in un ingiusto dimenticatoio. La cosa più importante rimane avventurarsi nei meandri di qualcosa, e riscoprire un Sé attraverso ciò, come spesso accade anche nei prodotti più o meno riusciti del Rinascimento della serialità americana odierna. DuckTales nel 2017 ha ritrovato la propria costruzione e strutturazione da opera formativa e morale, arricchendosi con uno stile grafico rinfrescante senza avere le caratteristiche plastiche e sformate che spesso fanno parte del DNA dei nuovi prodotti televisivi Disney (tra i quali, tuttavia, v’è anche una delle serie d’animazione americane più belle degli ultimi anni: Gravity Falls di Alex Hirsch, compagno di Dana Terrace, tra le principali menti dietro la regia e l’animazione di questo reboot di DuckTales) e con un cast di doppiatori presieduto da David Tennant, il grande attore scozzese diventato vero e proprio viso dell’avventura multidimensionale nel ruolo del Decimo Dottore in Doctor Who, che dà anima e tono a un Paperone che alterna severità, ostilità, avidità a vigore giovanile, agilità, genialità profonda, dimostrando tutti i lati di quello che è uno dei personaggi più complessi della produzione fumettistica e d’animazione mondiale. E inoltre, in questo percorso dell’eroe che sicuramente si sta rinnovando di puntata in puntata in questo reboot, è necessario dire, come ultima cosa, una banalità importantissima: è dannatamente divertente.
Nicola Settis