4 Settembre 2016 -

DRUM (2016)
di Keywan Karimi

Il primo protagonista di Tabl – titolo internazionale Drum – è un’assenza forzata. Quella di Keywan Karimi, filmmaker iraniano all’esordio nel lungometraggio di finzione, impossibilitato a venire a Venezia per presentare il suo film perché condannato a un anno di carcere e 223 frustate a causa del suo lavoro precedente, il documentario Neveshtan bar shahr (2015), incentrato su trent’anni di graffiti politici in giro per Teheran e considerato “propaganda contro lo Stato e offesa alla sacralità islamica”. Una condanna definitiva ma non ancora eseguita, in attesa dell’arresto che potrebbe arrivare in qualsiasi momento,  che costringe però già il regista a non poter espatriare, il passaporto ritirato e la dignità calpestata. Presentato, dopo l’ottima apertura del concorso con Jours de France di Jerome Reybaud, alla trentunesima Settimana Internazionale della Critica, Drum è quindi, prima ancora di ciò che si vedrà sullo schermo, un’ulteriore prova di quanto possano essere ancora appuntite ai limiti del medievale le forbici della censura. Quella stessa censura iraniana che costringe non solo Karimi, ma anche Jafar Panahi, a far uscire clandestinamente i film dal Paese per farli giungere ai selezionatori festivalieri in chiavette usb che diventano cavalli di Troia più blindati e nascosti della classica torta con la lima; quella stessa censura iraniana che da ventisei anni terrebbe ancora sotto chiave, se il regista stesso non avesse rischiato per “rubare” il proprio negativo dalla Cineteca, il capitale The nights of Zayandeh-Rood di Mohsen Makhmmalbaf, visto (finalmente) solo pochi giorni fa, e in versione irrimediabilmente mutilata, in Venezia Classici.

Nel suo avvolgente e curatissimo bianco e nero, Drum è Teheran, città sporca, città marcia, città ingrata, città sghemba, città asfissiante. Città misteriosa come il pacco portato dal nulla a sconvolgere la vita dell’anonimo avvocato protagonista, città fantasmatica fatta di uomini e luoghi senza nome né scopo, città magmatica che assiste inerte e quasi sadica al degrado dei suoi abitanti. Nella tensione al noir classico, Karimi porta sullo schermo un film politico e impressionista, fatto di intrecci di linee dei ponti e delle finestre, fatto di cupole tonde e di gru slanciate, fatto di inquadrature fuori bolla e di lunghi silenzi, fatto di luoghi frammentati dalle porte e dagli ostacoli, fatto di (poche) luci e (tante) ombre che riportano alla memoria il Nosferatu di Murnau così come Il wellesiano terzo uomo di Reed, e soprattutto fatto di pianisequenza e lente carrellate che tanto ricordano lo stile del maestro magiaro Bela Tarr. E in questo senso quello di Karimi potrebbe essere definito un film derivativo, dove dalle strade ventose di Satantango ci si sposta lentissimi e costanti fino alle corsie dell’ospedale de Le Armonie di Werckmeister. Ma sarebbe sbagliato, in questo caso, prendere il termine “derivativo” nella sua accezione negativa, perché il linguaggio cinematografico scelto per Drum non è in alcun modo un suo limite, ma al contrario il principale pregio del film, il suo motore, il suo cuore pulsante: l’incursione nelle forme riflessive e ovattate tipiche di Tarr non si limita certo a una pedissequa copia, ma piuttosto si pone come la ricontestualizzazione storica e soprattutto geografica di uno sguardo, in una modernizzazione che accompagna il bianco e nero delle riprese lunghe e arzigogolate ad effetti sonori sospesi fra l’industrial e l’onomatopea, tra i rulli di tamburi e gli improvvisi stacchi musicali di un’atmosfera onirica, nichilista, acida, vagamente surreale. Ma nel corridoio dell’ospedale, questa volta, non c’è alcun assalto, non c’è alcuna consapevolezza dell’errore nell’orrore, c’è solo il silenzio, c’è solo la solitudine, c’è solo la follia dell’uomo abbandonato a se stesso che sussurra parlando al bavero della propria camicia, come se fosse in contatto radio con un qualche Dio ormai morto, o comunque voltato dall’altra parte.

Fra dialoghi e azioni che rimangono fuori campo, il racconto di un’omicidio e la complicità di gangster non meglio identificati, mareschiani massaggi in un bagno turco e scavi nel pavimento del bagno per nascondere il pacco misterioso, Drum procede nel detour dell’anima putrescente di una città che muore. Non sappiamo cosa ci sia nel pacco, non lo sapremo mai: forse è una bomba a orologeria, viene suggerito al protagonista, forse sono mazzette di denaro, forse è un mattone, forse è l’Iran, forse non è nulla, e del resto nessuno più si chiede quale sia il contenuto della valigetta di Pulp Fiction: il punto è solo un pretesto narrativo, un orpello di trama sul quale costruire l’aura di mistero e la radiografia sfocata di Teheran. Il pacco è la porta per l’inferno, in un certo senso, dal quale guardare il mondo che sfugge alle regole e alla logica. “Il pessimismo è aumentato in questa città, e il pessimismo porta al suicidio”, ricorda il medico all’avvocato protagonista poco dopo aver ascoltato all’autoradio un discorso di Mahmud Ahmadinejad, fino a quando il famigerato pacco non verrà riconsegnato alle pessime mani che lo reclamano, aprendo a un futuro probabilmente ancora più grigio. Del resto, quando i gangster giungono ancora una volta all’abitazione del protagonista, la macchina da presa non fa altro che allontanarsi, in una lentissima carrellata che dall’interno della casa passerà all’esterno, per poi continuare ancora, costante, ad allargare il campo sotto la pioggia battente, mostrando il buio, mostrando le rovine di una civiltà, mostrando la devastazione di chi la vive quotidianamente, colpevole solo di esistere, in una porzione di mondo e di storia che pare non aver più nulla da dare ai suoi figli. E infatti si rimane soli, seduti al tavolo, depressi, mentre fuori dalle finestre la città continua lentamente a morire.

Marco Romagna

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