DRIVE MY CAR (2021), di Ryûsuke Hamaguchi
«Baby, you can drive my car
Yes, I’m gonna be a star
Baby, you can drive my car
And maybe I’ll love you»The Beatles, Drive my car
Arriveranno dopo oltre 45 minuti, i titoli di testa di Drive my car. Una cifra stilistica oramai fondante della costante e sempre più straordinaria parabola di crescita autoriale di Ryûsuke Hamaguchi, nella quale il deflagrare della musica e delle scritte sullo schermo non rappresenta mai la partenza ma semmai il necessario ripartire, tanto del film quanto delle anime lacerate dei suoi personaggi. Una ripartenza che non è solo narrativa, geografica e/o come in questo caso produttiva, con le riprese di Drive my car bloccate per otto mesi dalla pandemia proprio nel momento del loro passaggio da Tokyo a Hiroshima prima dell’ultimissima sessione a Hokkaido, ma anche e soprattutto emotiva, il punto da cui ricominciare a intersecare le traiettorie sentimentali di un’umanità che riemerge dalle sue macerie per tornare progressivamente a pulsare di empatia. Ma questa volta più che mai si spinge ben oltre ben oltre il suo afflato poetico, l’ambizione di Hamaguchi. Fino al film della definitiva maturità dell’autore giapponese, che se già con i tre episodi di Wheel of fortune and fantasy Premio della Giuria all’ultima Berlinale aveva lasciato intravvedere un importante salto qualitativo dopo il promettente ma dispersivo Happy hour e il poetico ma ancora acerbo Asako I&II, arriva qui sulla Croisette di Cannes 2021 a lambire, e forse superare, il confine del capolavoro. Da una parte l’autore giapponese ragiona sul testo, sulla composizione letteraria, sulla narrazione e sulla comunicazione in lingue differenti, rileggendo e stratificando in un dialogo di quasi tre ore con il Samuel Beckett di Aspettando Godot e soprattutto con l’Anton Čechov di Zio Vanja le omonime quaranta pagine del Drive my car Haruki Murakami. Dall’altra teorizza apertamente sulla recitazione, sulla regia, sul metodo, sulla memoria, sul ruolo, sulla perfezione, sul ‘sentire’ il copione, sulla continuità fra la vita e la scena, sulla realtà e sulla finzione, nel suo impianto metateatrale che porta il testo e il palcoscenico a diventare espressioni di un vero molto più assoluto del reale. Mentre dall’altro ancora si apre con intensità commovente alla lirica, all’amore, al tradimento, alla mancanza e al senso di colpa, alle reciproche confessioni e alla crescente e inaspettata intimità, ai più impossibili trovarsi di anime che sembravano destinate a vagare senza più una meta e alle due punte di sigarette che finalmente si incrociano nel tettuccio aperto della macchina. Un film di straordinaria complessità con cui Hamaguchi affonda il suo periscopio nelle discrepanze fra autentico e tangibile, fra il dubbio che rimette in discussione il vero e la sincerità della convinzione che diventa verità incontrovertibile, fra l’omettere facendo finta di non vedere e lo svelare e riscoprire poco a poco, fra il perdersi nei meandri dei propri e altrui lati oscuri e il ritrovarsi nel cono di luce di un riflettore, fra un palcoscenico rigorosamente multilingua e un dialogo tra le pareti domestiche rimasto invece drammaticamente inaffrontato. Fra un gemito che non può essere vero amore e un’ispirazione letteraria di sesso che sublima in narrazione erotica, e che come in una trance orgasmica di emozioni, corpi e parole diventa storia, destinata a continuare negli occhi di un altro uomo che si fanno lucidi d’adorazione e nostalgia nel ripensare a ciò che non potrà tornare.
«Devo aspettare o devo scrivere?», chiede la drammaturga Oto al marito Yusuke Kafufu, attore e regista teatrale di prodigiosamente orchestrate e “funzionanti” rappresentazioni in cui ogni attore parla la propria lingua compreso il coreano dei segni, in una babele che nello scorrere (sottotitolato, ma solo per il pubblico pagante) dei loro dialoghi (im)possibili non perde mai un solo briciolo dell’intensità dei testi, ma anzi li innerva di ulteriore vita, di ulteriori esperienze, di ulteriori emozioni. Inizia con la sua silhuette nuda all’alba Drive my car, con la sua ispirazione eroticissima e letteraria che si fa narrazione, con la sua voce che quasi sembra già provenire dal quel fuoricampo magnetico a cui drammaticamente un’emorragia cerebrale ben presto la condannerà per sempre, intrappolata sui nastri delle musicassette con le quali Yusuke abitualmente allena la memoria alle battute mentre è alla guida della sua Saab 900 rossa. Un’auto iconica eppure complicata da condurre, manuale, vecchiotta, con il volante a sinistra in un Paese che guida all’inglese, tanto che, quando al volante si metterà Oto, Yusuke non riuscirà a tenere per sé i consigli e le osservazioni di chi è abituato a guidare e semplicemente soffre a essere portato. Riuscirà invece a fare finta di nulla quando, in seguito a un volo rimandato, tornerà a casa e la troverà a fare sesso con uno sconosciuto, come se il suo gemere di piacere senza giungere all’ispirazione poetica non fosse nemmeno un reale tradimento, privo del trasporto amoroso che raggiunge con lui, l’unico vero amato. È con lui che, al registratore, Oto aspetta quei tempi perfetti e calcolatissimi, sempre uguali nei secondi necessari per pronunciare le battute in risposta, che solo lo studio mnemonico dei copioni e le ossessive e infinite prove possono assicurare, ed è con lui che ‘scrive’ oralmente nei vortici di passione quei racconti erotici che il giorno successivo saranno la sinossi incompleta sulla quale cominciare a costruire i suoi script. È per questo che quando sarà Takatsuki, ultimo amante della donna e attore che da sempre aveva sognato di lavorare con Yusuke, a svelare finalmente al regista vedovo il finale di delitto e castigo della storia immaginata da Oto, in realtà da dietro la sincerità di quelle lacrime che la ricordano a due anni dalla sua morte gli sta raccontando molto più della trama, e persino molto più dei sensi di colpa della donna, sublimati nel racconto in un intruso che diventa «altro uomo» e nella legittima (?) difesa per cui verrà ucciso. Gli sta raccontando di amore, passione e appartenenza, gli sta raccontando di un matrimonio che forse quella volta sarebbe davvero finito o forse no, ma soprattutto gli sta raccontando di come sia molto più importante credere alla sincerità di un sentimento che alla cruda realtà dei fatti. Gli sta raccontando di un ardore e di un’empatia identiche alle sue, e delle quali è allo stesso modo impossibile dubitare. Gli sta raccontando il vero, che forse non è un vero assoluto ma è tutta la sincerità del suo, la sua convinzione e la sua incapacità di mentire, il suo trasporto e il suo rimpianto. Un vero differente da quello di Yusuke, che lo confuta e lo rimette in discussione senza che nessuno dei due possa mai arrivare a conoscere la realtà, e che definitivamente pone i due zio Vanja nella stessa situazione. Forse un (doppio) passaggio di consegne, di certo l’intima consapevolezza di un amore e di un dolore condivisi e mai del tutto rimarginati, e ancora tutti da rivivere sul palco in quelle parole di Čechov capaci di far rinascere un corpo e un’anima bloccati dal trauma, ma anche di distruggerne e pietrificarne altri con la loro devastante potenza espressiva ed emotiva, con la loro capacità atterrente di far emergere nella finzione quella verità emotiva assoluta che sembra mancare nella realtà della vita.
Nel breve racconto di Murakami è il glaucoma che affligge Yusuke, il motivo per il quale la sua Saab viene affidata alla guida di una giovane, silenziosa e riservata autista professionista. Qui, invece, Hamaguchi preferisce salvare la vista del suo protagonista con una diagnosi precoce e con quelle gocce oculari che puntualmente si trasformano in lacrime, facendo entrare nel racconto il personaggio di Misaki per gli obblighi assicurativi del teatro di Hiroshima che assolderà il regista per mettere in scena Zio Vanja. Non certo l’unica modifica al testo originale, in un adattamento che del Drive my car letterario, pubblicato nel 2014 nella raccolta Uomini senza donne, cerca e ritrova intatto lo spirito riscrivendone e stratificandone liberamente ambientazioni ed eventi. Eppure, come nel testo di Murakami, sarà proprio la crescente intimità con Misaki la chiave per ritrovare l’empatia, l’umanità, la forza per rimettersi in scena, e quindi ricominciare a vivere. Una donna con un passato per molti versi simile al suo, che non riesce più a sorridere dopo le difficoltà e i lutti, i sensi di colpa e i rimpianti più ancestrali. Lui che non riesce a smettere di sentirsi responsabile per la morte della moglie dopo che già insieme avevano così difficoltosamente e solo provvisoriamente superato quella del figlio, e lei che continua a tornare con la mente a quella notte in cui non fece nulla quando il terremoto distrusse la sua casa fra le nevi di Hokkaido, trascinando via per sempre quella madre dalla doppia personalità (dissociata o forse semplicemente brava a mettersi in scena per riuscire a farsi amare dalla figlia, sovrapponendo ancora una volta realtà e finzione) al contempo arpia e sua migliore amica. Entrambi che si sentono assassini senza assolutamente esserlo, entrambe anime fragili che nelle loro traiettorie non riescono a trovare un momento di pace. Fino ai tunnel notturni e al groviglio che pare un labirinto inestricabile di rampe autostradali, fino al mare dal traghetto e alla neve che cade dopo la pioggia, fino al silenzio assoluto che irrompe nei testi e a quella sigaretta che diventa bucaneve, incenso e affetto. Tesi e antitesi che portano all’unica possibile sintesi: il cuore. Lo stesso con cui andare in scena. Quello, miracoloso, che Yusuke ottiene con il suo peculiare metodo, dai provini che ricordano allo specchio il Lynch di Mulholland drive alla lettura ossessiva di dialoghi che vanno imparati ma ancor più interiorizzati, prima di poterli recitare ascoltandosi ma soprattutto sentendosi in lingue differenti e sconosciute. Un metodo che lo stesso Hamaguchi ha seguito e fatto seguire ai suoi attori, con le lunghe sessioni di prove che è riuscito a imporre a un’industria, quella giapponese, generalmente molto più sbrigativa, e con le riprese effettuate in rigoroso ordine cronologico e a distanza di mesi in modo che gli interpreti potessero progressivamente vivere gli stessi mood dei loro personaggi. Il metodo della potenza espressiva assoluta della narrazione, del racconto, del testo. Nella ritrovata consapevolezza che però il testo da solo non basta, perché quello che realmente conta per essere veri nel metterlo in scena è il recupero dell’umano, della passione, dell’emozione. Solo così si potrà di nuovo guardare avanti verso una nuova vita, come nel finale di Zio Vanja. Solo così si potrà di nuovo trovare un nuovo orizzonte, e mentre la Saab 900 si muove sicura nella neve, al momento di togliersi le mascherine nel frattempo piombate nelle nostre quotidianità, riuscire finalmente per la prima volta dopo chissà quanti anni a mostrare la serenità di un sorriso.
Marco Romagna