Bildungsroman saffico, racconto difforme e iper-scritto di bivi e possibilità, Dreams è l’ultimo capitolo (ma forse solo di ordine di uscita festivaliera) di una trilogia cinematografica con cui il regista norvegese Dag Johan Haugerud ha scolpito nello schermo una sensibilità imprendibile. Freschissimo Orso d’Oro alla Berlinale 2025, Dreams è difatti parte dell’insieme Sex-Dreams-Love, i cui titoli sfumano l’uno nell’altro nelle locandine, nei pensieri di personaggi e spettatori, nelle vie di Oslo. Tre film separati l’uno dall’altro per narrazione, ma uniti dal legame con la parola e da forti fili rossi tematici. Inevitabile notare in Dreams la forte riflessione del testo proprio sull’amore e sul sesso, come cercare di capire quanto ‘sex’ ci sia in Love e quanto ‘love’ in Sex; lo sforzo diventa dello spettatore, ed è quanto mai letterario, l’esperienza di visione assomiglia a una vera e propria interpretazione del testo. Nel caso di Dreams nello specifico, una distinzione già utile da fare si colloca proprio nel lessico e nell’etimologia del titolo — perché la parola Drømmer, tradotta anche giustamente in Dreams o in Sogni (per quanto sarebbe più corretta una forma verbale di “sognare”), possiede in verità una doppia sfumatura, quella che già conosciamo e una più distante da quella dell’onirico, dell’immaginazione che impazza durante il sonno. Un significato più vicino per senso a parole come “illusioni” o “idee”, tanto che addirittura per ‘drømmere’ si intende sì “sognatori” ma anche ‘idealisti’.
La sognatrice protagonista del film, la liceale Johanne (interpretata da Ella Øverbye, già interprete di Beware of Children (Barn) di Haugerud, presente alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia nel 2019 nella sezione Giornate degli Autori), è difatti perlopiù un personaggio che vive nelle manifestazioni dei suoi desideri; una giovanissima ragazza che cerca, idealizzando rapporti e situazioni, uno spazio nel mondo per i propri sogni, ma soprattutto uno spazio per se stessa (e i propri desideri) nella propria stessa vita. La trama: Johanne s’innamora della sua professoressa di francese, la giovane artista tessile Johanna, già dal nome suo doppio e opposto, personalità confortevole e carismatica che diventa presto un’ossessione per la giovane ragazza. Da ossessione sessuale idealizzata (la spinta verso un ideale d’amore carnale morboso ed egocentrico) a innamoramento con tutti i crismi dei cuori spezzati adolescenziali, il racconto dall’interno di questo rapporto univoco, amore inespresso tra donne dal nome simile ma che a malapena riescono a toccarsi, sempre sull’orlo della pedofilia ma mai del truce, potrebbe anche chiamarsi Anatomia di una cotta per la precisione chirurgica con cui penetra nell’onestà dei sentimenti, con la loro natura effimera, imprendibile, irrazionale. Per potersi esprimere pur provando cose che non vuole condividere con nessuno, Johanne descrive dettagliatamente il suo sentire e il suo rapporto con Johanna in un romanzo che non intende mai pubblicare — finché non viene letto dalla nonna, poetessa, e dalla madre, che con le loro disamine morali e un curioso spirito di critica letteraria tentano via via di convincere la ragazza a pubblicare il testo con una casa editrice.
Giust’appunto, di “sogni” per come li intendiamo solitamente c’è ben poco. Una singola scena onirica fa capolino intorno alla parte finale del film, ed è un sogno fortemente allegorico della nonna che riflette un aspetto seminascosto del film: un discorso sul femminile. In Drømmer sono pressoché assenti le figure maschili, escluso un amichetto di Johanne che appare en passant all’inizio e uno psicoanalista che invece fa la sua comparsa nel terzo atto — a entrambi è relegata una sola scena, e sono ascoltatori ma non partecipanti attivi alla storia. Madre e nonna sono onnipresenti, padre e nonno neanche menzionati. Gli unici personaggi in scena realmente importanti, escluse le due ‘Johannə’, sono le amiche delle protagoniste (due compagne di liceo, due amiche/compagne di arte tessile), un’editrice, e appunto la mamma e la nonna. I veri e propri dialoghi del film sono soprattutto tra nonna e/o mamma e/o nipote, in un confronto intergenerazionale che mette a paragone diverse visioni sociopolitiche (riguardo il femminile, ancor più che il femminismo), diversi desideri nella sfera sentimentale e sessuale, diverse ambizioni e concezioni del proprio ruolo nella vita e nella letteratura, e infine diverse visioni dell’utilità effettiva della letteratura e della manifestazione del sentimento… Per lo meno in questa forma autobiografica e secca nella sua sognante sincerità, che può creare riconoscimento e catarsi negli eventuali lettori sconosciuti ma solo confusione e turbamento negli autori che si ritrovano a spiattellare la propria vita con la sensazione che adesso sia affidata al pubblico ludibrio. Il maschile è rappresentato da incontri incidentali, sguardi giudicanti (politici) indivisibili dalla donna ma invisibili, e infine corpi allegorici in un sogno la cui unica funzione è – letteralmente, letterariamente – remare contro. La città di Oslo, protagonista in Sex quasi più dei suoi personaggi, è qui invece una cornice per un conflitto tra sottigliezze. Un nulla che accade come risposta a un tutto che sarebbe potuto accadere. Nel giro di due ore di durata sono compressi gli eventi di pochi anni, ma sembra ci sia il peso del passaggio delle generazioni, del Novecento, di una spinta alla libertà che si è trasformata in liberalismo, di una società idealistica europea i cui valori sfumano nel confronto costante tra il quotidiano e il concettuale, il concreto e l’astratto, la vita dei gesti e quella della parola.
Da un punto di vista strettamente filmico (visivo, cinematografico), il lavoro ha le sue unicità come le sue evidenti influenze e derivazioni. Come di solito e anche giustamente fa il cinema che concerne la letteratura (ci viene in mente Il gioco delle coppie di Assayas), il lavoro sulla parola scritta e/o pronunciata è parallelo a quello sull’immagine e anche più forte; Haugerud ha tuttavia l’accortezza di mescolare registri ben differenti, per quanto visivamente continuativi in modo da ben amalgamarsi nel montaggio, per esempio affidando perlopiù alla voce narrante e narrativa di Johanne la trama d’amore e ossessione, così creando un parallelo ‘riassuntivo’ col romanzo autobiografico che lei scrive nell’intreccio, mentre una tradizione di dialogo più vicina al teatro (e a come il dialogo teatrale si è adesso traslato nell’audiovisivo, ovvero: non nel cinema, ma nella serialità televisiva, dalle sit-com ai documentari) padroneggia negli spiritosi (e nel contempo drammaticissimi) dialoghi familiari. Ciò si riflette nella regia, che contempla diverse modalità di ritrattistica, con più o meno distacco, più o meno composizione dell’immagine, più o meno improvvisazione che sembri reale. Ogni micro-sensazione è sviscerata nel macro del grande schermo, la narrativa aneddotica della vita sembra diventare saggistica della socialità odierna, e anche se non ci sono cenni netti al disfacimento politico-culturale contemporaneo (i concetti-mostro che ci inseguono nei giornali, telegiornali e social network, una morte del collettivo che potrebbe essere il vero grande tema scottante di oggi, ma ci sono tanti pesci nel mare) Drømmer certamente è figlio della dialettica dell’oggi, attualissimo e capace davvero di unire spettatori e soprattutto spettatrici in balìa della trasmissione intergenerazionale. La naturalezza leggiadra con cui immagini quasi reali si susseguono nelle parti di ‘sogno’, cioè idealizzazione, si unisce alla disamina letteraria, creando di fatto un immaginario realistico (per quanto soggettivo, in quanto soggettivo) di un mondo che è esso stesso e nel contempo la molteplicità delle riflessioni su esso stesso. Il finale aperto è l’esplosione di questa molteplicità di pensieri e possibilità: può essere un nuovo inizio e una nuova fine, a seconda di che ‘drømmere’ siamo.
Nicola Settis