DRAGGED ACROSS CONCRETE (2018), di S. Craig Zahler
S. Craig Zahler si conferma – con nomi come i fratelli Safdie o Brady Corbet – come autore di rottura nel cinema di genere (anche se dovremmo slegarci pure da questa, ennesima e stanca, etichetta) americano. Lo fa dopo due film densi e diversi, come Bone Tomahawk – indefinibile deriva western pulsante e quasi orrorifica – e Block in Cell 99 – visionario delirio carcerario in più atti -, con questo Dragged Across Concrete; un complesso e teso noir fuori tempo massimo estremamente esistenziale come teorico, duro quanto intimo, presentato fuori concorso (e non si capisce in realtà perché non nella competizione principale) a Venezia75. La linea, come l’evento che lo struttura, è assai semplice. Due ispettori di polizia – essi stessi distanti dall’azione attuale, provenienti da un’e(s)tetica del lavoro ormai estinta – vengono sospesi dal servizio quando viene diffuso dai media un video che li incrimina per metodi violenti usati durante un’operazione. Quello è il loro piccolo “sliding doors” appoggiato da un modo di fare che non li soddisfa più, condizioni economiche precarie e un senso di rivalsa verso l’ortodossia della legge. Il vecchio (Mel Gibson) dalla carriera sfavorita dai suoi stessi metodi convince il più giovane (Vince Vaughn) in attesa – forse – del matrimonio, a intraprendere questo viaggio ai limiti della criminalità. Un percorso che appare come uno sguardo per buona parte del film, prima di attraversare un mondo sommerso di violenza pura ed esplicita in cui la lotta per la sopravvivenza è necessità non solo di espressione. Non ci sono più possibili vie d’uscita se non quella del sacrificio, forse anche dalla nessuna utilità; in questo reticolo di vite disperate Craig Zahler ridiscute i canoni del genere (impossibile), tracciando percorsi che mettono in discussione il destino e l’esistenza, la precarietà dell’attimo e di un tempo trascorso invano.
Dice lo stesso Zahler: «Mel Gibson è Ridgeman, il poliziotto istintivo e amareggiato. Vince Vaughn è il magistrale antagonista. L’acuto e carismatico Tory Kittles e il poliedrico Michael Jai White vestono i panni delle controparti malavitose. La bravissima Jennifer Carpenter è un’altra importante tessera del mosaico». Più interessante dei commenti sulla scelta del cast, comunque straordinario, risulta la riflessione sul mosaico. I punti di partenza sono i tasselli fondamentali del noir poliziesco a stelle e strisce (il carattere più che discutibile del comportamento tenuto dagli agenti, il più che mai sottile limite tra morale ed etica di un’azione, i rapporti di potere interni all’arma, la deriva che porta due gendarmi assai particolari a ritrovarsi sullo stesso piano di pericolosi criminali) ma l’evoluzione degli stessi caratteri in questo percorso è significativo ed esplicativo della stessa società americana dell’ultimo periodo. Ecco che le tessere compongono una struttura diversa, quella di una realtà lacerata che colpisce i livelli più disparati – splendido l’innesto della madre restia a tornare a lavoro e uccisa proprio durante la rapina, urticanti le parentesi legate alla violenza di colore, alla piaga dell’eroina, al bullismo e agli emarginati – per una sopravvivenza all’apparenza impossibile che trova la sua (altrettanto apparente) possibile realizzazione in un malloppo utopico. Ecco quindi allora che il mosaico si fa quasi completo, una costruzione fragile di esistenze precarie che attraversano sogni e paure prima di sprofondare nel baratro dell’oblio. Vale troppo poco la vita forse, almeno le loro, figlie di una costante guerra urbana senza pace. Quasi come se la sopravvivenza rimanesse fuori campo rispetto al campo costante dell’azione, che uccide e nasconde tutte le apparenze.
Zahler così osserva e fa deflagrare il suo film nelle travagliate esistenze dei suoi protagonisti. Un film corale, forse sulle tracce di Dog Day Afternoon come di Falling Down, di Prince of the City come di Sweet Smell of Success, di Devil in a Blue Dress come di Heat. Forse, perché ne segue uno sviluppo assai diverso, si potrebbe dire che Dragged Across Concrete indossa – non solo in senso puramente formale – le vesti di un vecchio poliziesco per scrittura e tensione narrativa, ma trova la sua completa risoluzione sulla continua forma temporale ellittica ed espansa – mirabili il lavoro di sguardo sugli sguardi, l’inseguimento apparente, la densità della durata di una possibile attesa – che porta a una ben precisa dialettica sulla/nella fine davanti alla consapevolezza del baratro. L’infinita lunghezza dell’attimo prima della morte – come il dialogo con il cameo di Don Johnson che riscrive un altra traiettoria verso qualcosa che non c’è più – è l’ultimo canto possibile del genere (quasi parallelo al sacrificio di Otomo nell’ultimo, sublime, Outrage Coda di Kitano) distillato e dolce, quasi intimo nella propria inconfessabile violenza. In tutto questo il lavoro di Zahler è allo stesso modo rigoroso e inventivo nella messa in scena – splendido anche il lavoro alla fotografia, quasi mulleriana, di Benji Banksi – che trova nell’infinito duello finale un climax fenomenale per lirismo e presenza. Spogliato di tutta la presenza narrativa (e attoriale) questo Dragged Across Concrete è una complessa e stratificata riflessione sul vedere, sul filmabile, sull’essere ripresi. Lo scheletro del film, come la sua metafora finale, rimane l’incontro/scontro di sguardi tra amici e nemici, vittime e carnefici, mirini di pistole e fucili. Dalla sequenza iniziale che cambia per sempre la vita dei due poliziotti, rivista dalle telecamere di sorveglianza, all’osservazione infruttuosa dei malviventi; ogni immagine è possibilmente sdoppiata, infinita, compressa in nuove traiettorie e allo stesso tempo chiusa nella sua astenica circuitazione. Uno sguardo continuo per occhi disperati, per anime che cercano la rivalsa nella propria essenza dopo aver perso quasi tutto e ritrovatesi davanti a un quasi nulla. Nella mancata (o fallita) risposta alla richiesta di matrimonio di Vaughn, come nella carriera fallita (o senza ormai possibilità) di Gibson, vive questo detour tra il tenebroso western urbano e l’ultimo valzer di pallottole. Nulla di tutto questo forse, solo una notte di delirio come tante in una società invivibile. Nel post-finale, per quanto quasi posticcio possibile, un certo presunto bene pare trionfare quasi con irriverenza. Ma ha ancora senso, dopo tutto quello che abbiamo visto?
Erik Negro