A volte, chi troppo vuole (quasi) nulla stringe. Avrebbe avuto tutte le carte in regola per rivelarsi un gran film Downsizing, il nuovo lavoro di Alexander Payne che apre in Concorso la 74ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, forte della vena satirica amara che ha sempre contraddistinto l’opera del regista statunitense, forte di un’ambientazione distopica che permette una ben precisa metafora e sociale su una middle class americana classista e ingiusta anche se in miniatura, forte di un ben preciso afflato ambientalista che sembra quasi ritornare al cinema militante degli anni Settanta, forte appunto dell’idea non originale ma sempre affascinante della miniaturizzazione umana, forte di un supporto tecnico impeccabile nella fotografia in 35mm così come negli effetti speciali, e forte pure di un cast all-star, che all’ottimo protagonista Matt Damon affianca la straordinaria coppia di contrabbandieri formata da Christoph Waltz e Udo Kier fino a concedersi persino, in tempi di Twin Peaks, un breve e gustoso cameo di Laura Dern. Eppure, dopo una prima metà brillante e acuta, tutto questo rimane solo in potenza: Downsizing si perde nei troppi concetti che vuole esprimere e nelle troppe svolte narrative e tematiche, si perde nei tanti, troppi, interrogativi che apre e non chiude, si perde nel suo lasciare a metà le riflessioni sulla natura umana, sull’economia e sull’ambiente per intraprendere la strada del cliché e del moralismo più o meno spicciolo, fino a quasi dimenticare la sua ambientazione fantascientifica per mettere in scena una storia d’amore e solidarietà in scala ridotta, apice di una clamorosa occasione sprecata, lasciata naufragare nelle troppe ambizioni, nelle lungaggini e nelle reiterazioni.
Si intitola Downsizing, “miniaturizzazione”, eppure si estende oltre le due ore e un quarto e sono molti, probabilmente troppi, i film che lo compongono. C’è l’utopia ecosostenibile (non certo a caso proveniente dalla Norvegia) di miniaturizzare gli esseri umani per ridurre drasticamente i consumi e gli scarti, c’è l’illusoria opulenza che questo rimpicciolimento porta nella piccola borghesia che vede il suo capitale più che centuplicato, c’è l’idea di farsi miniaturizzare che lentamente si fa strada nella mente del protagonista Paul Safraneck (Matt Damon) vincendone le resistenze, c’è la consapevolezza progressiva che questa miniaturizzazione nient’altro è che una necessità di cambiare vita per salvare se stesso, e poi c’è il colpo di scena dell’abbandono sul lettino, sorta di nuovo altare per chi invece non se la sente di cambiare vita e preferisce lasciare Paul minuscolo e solo, (auto)condannato a un processo irreversibile che lo porta a perdere tutto: la moglie, gli amici, la casa, la vita a grandezza naturale. Fino a qui tutto bene, con Payne che riesce a intingere nella sua solita e acuta ironia agrodolce un genere apparentemente così diverso dai suoi canoni, e che nel frattempo riflette con acume sull’ecosostenibilità e sull’economia, sulla società e sulla natura umana. Ma poi c’è poi la seconda vita di Paul a Leisureland, perfetta cittadina in miniatura ricca e protetta da una zanzariera, sicura e tranquilla, perfettamente indipendente e autosufficiente anche se destinata a rivelare ben presto la sua natura di illusione, e i film si moltiplicano ancora come un delta incontrollato, che dalle moltissime buone intuizioni e interessanti riflessioni messe sul piatto finisce per riuscire a tirare fuori quasi solo confusione, conclusioni mancate, derive moraliste, evitabili scivoloni sull’imminente fine del mondo e una storia d’amore in scala ridotta che, al di là di una brillante classificazione dei modi di “scopare” attuati dagli americani, finisce per aggiungere poco o nulla alle iperboli e alla retorica di una narrazione che progressivamente deraglia. Perché Paul, uomo destinato a non riuscire a trovare una propria stabilità, incontrerà sì a Leisureland il “maestro di vita” Dusan (Christoph Waltz) che gli farà conoscere l’arte di arrangiarsi, ma pure la dissidente vietnamita Ngoc Lan, personaggio che entra a contestualizzare la metafora sociale ma poi se ne lascerà fagocitare, fagocitando pure buona parte delle precedenti intuizioni del film di Payne.
Miniaturizzata dal governo contro la sua volontà come vero e proprio crimine politico, ora Ngoc Lan fa le pulizie a casa di Dusan (“This is America: land of opportunity”), porta una gamba di legno malfunzionante che fa tornare in mente a Paul i suoi trascorsi in medicina e che aprirà per lui a nuove occasioni di dimostrarsi inetto ma accorato, e nel frattempo vive al di fuori della città miniaturizzata di Leisureland, in uno squallido complesso di case popolari fatto di decine di piani rigorosamente senza ascensori nel quale i poveri sono rimasti poveri nonostante la miniaturizzazione, nel quale le ingiustizie sociali sono rimaste tali, nel quale si grida apertamente come la felicità e la ricchezza di chi si fa rimpicciolire nient’altro siano che illusione, e come all’interno di una qualsiasi civiltà, anche se nuova, piccola, indipendente, sicura, protetta ed ecosostenibile, l’umanità non possa che rivelare la propria natura malvagia e criminale, reiterando ogni ingiustizia e vizio del “nostro” mondo. Ed è qui che Downsizing si arena, diventa pretestuoso nel “solito”, ma mai così ondivago, viaggio secondo Payne come ricerca di una seconda (in questo caso terza, forse ennesima) occasione, sbrodola fra una camera blindata come arca di Noé per la razza umana ridotta pronta a sfuggire alla (paventata, ma non imminente) estinzione di chi rimarrà in superficie a causa dell’inquinamento e il ritorno finale nel complesso/formicaio di case popolari in cui continuare ad aiutare i più sfortunati. Non è nemmeno una questione di messaggi, tutto sommato condivisibili: il problema di Downsizing è la loro banalizzazione, la loro riduzione a blando pamphlet ambientalista/sociale, il loro porsi come elenco di vizi e virtù della società senza saper suggerire soluzioni, oppure il loro completo abbandono per concentrarsi su altro, su un amore intimista telefonato e tutto sommato improbabile, sui bivi esistenziali di chi è e sarà sempre incapace di prendere una decisione. Da quando entra il personaggio di Ngoc Lan, Payne porta progressivamente verso i margini l’ambientazione fantascientifica, trasformandola in un mero pretesto narrativo, svuotandola della sua verve politica e sociale, e virando piuttosto su un fantastico vacuo, privo di epica. Concentrando le sue tematiche e la sua ironia agrodolce su un qualcosa che, questa volta, sembra meno nelle sue corde, sfilacciato, probabilmente troppo ambizioso per poter riuscire appieno. Una buonissima prima parte, se non sa portare da qualche parte con il suo prosieguo, a volte non basta. Così come a volte non bastano una tecnica impeccabile e una serie di piccole perle concettuali e stilistiche, insufficienti però per formare un’intera collana. E questo, dopo film del calibro di Sideways, Paradiso amaro e Nebraska, non può che essere visto come un netto passo indietro, come la prima delusione di Venezia74. Ulteriormente acuita, a distanza di pochissime ore, dal magnifico First Reformed di Paul Schrader, che (anche) sull’ambientalismo struttura un film dalla grandezza e complessità impietosa per Downsizing, se possibile riducendolo ulteriormente di formato. Ma questa, per fortuna, è un’altra storia.
Marco Romagna