Si chiama Dovlatov, ma potrebbe tranquillamente chiamarsi “German”. È infatti un parallelismo chiaro e lampante quello che sta alla base delle stratificazioni dell’ultimo lavoro di Alexei German jr. giunto in concorso alla Berlinale 2018 a quattro anni di distanza da Under Electric Clouds, con le censure e le imposizioni subite da Sergej Donatovič Dovlatov, giornalista e scrittore sovietico dei primi anni Settanta, che non possono che riportare alle censure e alle imposizioni subite da Alexei Yuryevič German, padre del regista e autore fra i più importanti della storia del cinema non solo russo al quale in 45 anni sono stati fatti portare a termine solo sei film, e di cui proprio Alexei Alekseivich German generalmente accreditato come Junior ha completato dopo la morte l’ultimo abbacinante capolavoro Hard to be a God. Racconta di uno spirito libero, Dovlatov, di un uomo che, come il regista padre del regista, mai ha accettato limiti e imposizioni, mai ha accettato che la sua arte venisse piegata alla propaganda, mai ha accettato che fossero imposti limiti alla sua scrittura, a costo di non trovare editori così come German non trovava produttori, a costo di vedere i suoi libri non pubblicati così come i film di German erano impossibilitati a uscire oppure proiettati in sale vuote, tenendo gli interessati fuori con il sorriso ipocrita di chi millanta un inesistente sold out.
Era la Leningrado del novembre 1971, era la grigia e sospesa Unione Sovietica di Brèžnev, nella quale la censura e le limitazioni delle libertà di stampa, pensiero, parola e associazione non mollavano di un centimetro pur dissimulando la loro natura, pur fingendosi più “gentili”. Il periodo del disgelo era ormai stato quasi portato a termine, e la destalinizzazione, ormai tarda, procedeva lenta a liberalizzare poco per volta, o anzi a celebrare come eccellenza e testi fondanti, anche i grandi classici un tempo proibiti, da Pasternak a Puškin, da Tolstòj a Dostoevskij – del quale non certo per caso un’operaia intervistata nel film girato per celebrare l’efficienza del cantiere navale sbaglia il nome, come a dichiarare la poca radicalizzazione nell’immaginario popolare di un autore per lungo tempo bandito e solo ora esaltato come gloria sovietica. Ma, pur nelle piccole aperture, la Perestrojka era ancora lontana, e di certo non era ancora il tempo per liberalizzare lo “scandaloso” Nabokov né il “nemico della patria” Solženicyn, riabilitati proprio come Dovlatov e German senior solo alla fine degli anni Ottanta, e tanto meno gli stranieri Kafka, Hemingway e Joyce, voci non allineate alla dottrina e quindi voci scomode, voci da soffocare.
Sul cantiere navale/set cinematografico, a seguire l’inizio dei lavori e delle riprese del film, era stato inviato come giornalista proprio Sergej Dovlatov, con il suo stile elaborato, con la sua ferrea volontà di parlare secondo coscienza di ciò che riteneva opportuno, osservatore e se necessario critico con la sua cultura e con la sua testa. Quella che gli farà imporre più e più volte di riscrivere l’articolo «con positività», tenendo al centro l’esaltazione della gloria sovietica, e poi lo farà licenziare, perché evidentemente «inadatto» alle costrizioni dei tempi. Solo nel 1989, un anno prima della morte di Dovlatov, la sua opera già apprezzata in tutto il mondo verrà pubblicata anche in Russia, dischiudendo gli occhi su uno dei maggiori talenti letterari del ‘900 ripetutamente fermato da una censura che, nonostante il disgelo, non era molto diversa da quella di qualche anno prima, come non è in realtà molto diversa da quella di oggi, meno identificabile ma ancora più subdola, della quale ancora si avvale Putin.
Alexei German jr., autore fra i più indispensabili della contemporaneità riuscito per l’occasione a farsi finanziare da un Ministero della Cultura della Federazione Russa che evidentemente si è fermato all’Unione Sovietica non facendo caso ai sincronismi di Dovlatov con la censura di oggi, mette in scena lo scrittore nel corso di una settimana alla (vana) ricerca di editore in un biopic atipico, che forse riguardando indietro nella filmografia dell’autore è meno onirico e filosofico rispetto a Paper Soldier e Under Electric Clouds, forse è meno fuori dall’ordinario nel linguaggio cinematografico e nei simbolismi messi in scena, eppure è un lavoro altrettanto denso, complesso, straordinariamente raffinato nei riferimenti culturali e nella messa in scena pittorica, slavata e nebulosa, che innerva di nuovi sensi e ambiguità la minuziosa ricostruzione storica e politica rendendola chiara e accorata nei suoi afflati di libertà artistica. Del resto quello che emerge dai pianisequenza splendidamente orchestrati da Alexei German jr. e dalla nerboruta fisicità del protagonista Milan Marić è sempre stato il principale paradosso dell’Unione Sovietica da Stalin in poi: un ambiente culturale ribollente di intellettuali e di stimoli, un sublime proliferare di salotti nei quali parlare di arte e di letteratura straniera, di politica e di economia, e dall’altra parte i divieti, le imposizioni, le limitazioni, il rischio per procurarsi la cultura di contrabbando sui banchetti di libri abusivi, ultimo baluardo contro la censura ma perfetto bersaglio per la durezza del KGB. Tanto che lo stesso Sergej Dovlatov, di fronte a una bancarella del mercato nero, finirà per fingersi proprio dello spionaggio, riuscendo a far stilare all’impaurito ambulante un elenco completo di chiunque gli avesse mai chiesto Lolita. Dovlatov vaga per la città e per i suoi luoghi, beve e fuma, vive di stimoli culturali con i quali cerca di dimenticare gli ostracismi dell’Unione degli Scrittori, il suo matrimonio ormai agli sgoccioli, la sua totale incertezza economica, senza soldi e coinquilino in una casa/comune nella quale è impossibile restare un attimo soli. Vorrebbero che si allineasse, Dovlatov, che diventasse parte di un gruppo, che accettasse il suo suffisso -ista (situazionista, impressionista, sionista, realista, astrattista) con il quale essere bollato e riconoscibile, ma lui rifiuta cortesemente e meno cortesemente, combattendo ogni giorno con la sua ironia, con la sua sagacia, con la sua cultura e con il suo acume per essere lasciato libero di scrivere di argomenti «inutili», secondo ispirazione, secondo estro, senza alcun tipo di imposizione.
«I burocrati hanno distrutto tutto come ai tempi dello zar», dice apertamente Sergej Dovlatov, che vorrebbe scrivere un romanzo ma che è perfettamente consapevole che nessuno in URSS lo pubblicherebbe, un po’ per il suo non accettare i compromessi, un po’ per la sua religione ebraica, un po’ per i «soggetti sbagliati» dei suoi scritti. Sogna di sorseggiare una pinha colada (che crede del Nord Europa) lontano dalle nebbie autunnali sovietiche, ma è al contempo perfettamente consapevole che anche «l’ovest», i Paesi capitalisti, non sono il paradiso sulla terra ma portano sofferenze di altro tipo. Minori però, di certo, a quelle che quotidianamente deve soffrire in Russia, bandito sul lavoro, impossibilitato a seguire i suoi sogni e con in tasca nemmeno i pochi rubli che gli sarebbero necessari per poter finalmente regalare una bambola alla sua bambina. Così come non sembrano stare meglio di lui le persone che gli stanno intorno, i suoi amici Iosif Brodskij e Anatolij Kuznetsov come lui fondamentali autori censurati, costretti a emigrare e solo in seguito riscoperti, immersi in un tessuto sociale spartito fra chi si chiude e chi si suicida, fra chi condivide il medesimo destino di scrittore senza possibilità di avere editori e chi condivide la medesima casa e le stesse rischiose pagine proibite avidamente divorate. Si parla di Mao e di Brèžnev, di Gogol e di Dostoevskij, di capitalismo e di socialismo, di scrittori e di pensatori, di politici e di artisti, e non certo in ultimo di come anche e forse soprattutto gli operai possano tranquillamente essere poeti, a patto che abbiano a fianco la giusta musa.
Nelle stanze della redazione è quotidiana la pressione, è quotidiana l’umiliazione, è quotidiano il calpestare gli intellettuali da parte del governo e delle sue diramazioni, mentre al di fuori la vita e la cultura di Dovlatov vanno avanti, cementano il rapporto con la figlia, coltivano i suoi sogni significativi anche quando sono incubi, portando avanti le sue idee e la sua libera indipendenza. Del resto, nell’Unione Sovietica del tempo, la censura non aveva regole ben precise. Certo, si puntava alla dottrina il più possibile pura, ma per un Dovlatov o un German censurato c’erano intellettuali altrettanto scomodi, dai fantascientifici Arkadij e Boris Strugackij ad Andrej Tarkovskij di cui, come del resto di German senior, i fratelli scrittori sono stati inesauribile fonte di ispirazione, la cui opera mai è stata modificata o bloccata dalle autorità. Dovlatov mai ha piegato la propria etica alla convenienza, alle richieste propagandistiche, allo svendere la propria penna a quelle autorità che «negano la realtà», come mai ha svenduto la sua celluloide Alexei German senior, censuratissimo eppure mai domo, mai ingabbiato, mai smussato. E forse mai davvero andato via. Non finché ci sarà suo figlio, colui che porta avanti il suo nome e la sua arte, a ricordarlo e a parlare di lui, a costo di trovargli un alter ego nella realtà di un’arte parallela e ugualmente mortificata dagli interventi censorii. Conscio, proprio come la moglie di Dovlatov, che prima o poi «le cose miglioreranno», conscio, proprio come lo stesso Dovlatov enigmaticamente seduto sul tetto dell’auto in marcia, che «esistiamo», e che il nostro esistere prima o poi incontrerà il tempo, forse l’unico vero galantuomo. Anche se per avere la possibilità di pubblicare i romanzi, ora apprezzati in tutto il mondo, sarà necessario partire per l’America e morire troppo giovani.
Marco Romagna