DOROGIE TOVARIŠČI! (CARI COMPAGNI!) (2020), di Andrei Konchalovsky
È difficile capire l’autore Konchalovsky. Parlandone di qua e di là per il Lido, è evidente che la sua ecletticità, resa palese da estremi come Andrej Rublëv (di cui ha curato la sceneggiatura) e gli hollywoodiani Tango & Cash o Homer and Eddie, è accettata e universalmente riconosciuta da ogni cinefilo che ne abbia incontrato la filmografia. Le sue ultime opere costituiscono un curioso saliscendi, dallo stupore di The Postman’s White Nights al rigore filorusso del borioso Paradise, in cui un’autocelebrazione ingombrante finisce per inficiare anche lo sguardo del film stesso. Perciò, quando si entra in sala a vedere un film con un titolo altisonante come Cari compagni!, è un po’ difficile immaginare a che cosa si sta andando incontro. Il patriottismo prepotente e unilaterale di Paradise ne corrompeva l’efficacia durante la visione, rendendo il tutto troppo plasticamente stabile per non essere instabile, e finendo per essere una di quelle opere che ambiscono in alto senza mai volare davvero, per cui il timore di un’operazione analoga, qualcosa di falsato e distaccato, era un deterrente. Ma fortunatamente Cari compagni! non ricade nella stessa categoria, anzi, è un esercizio interessantissimo sia in ambito retorico che per narrazione e regia. Regia, non stile: lo stile è il vezzo, la ricostruzione, la personalizzazione. Qua Konchalovsky ha un approccio interessante nell’asciugare ogni fotogramma, senza mai dare l’impressione di uno sguardo onnisciente o comunque capace di comprendere e razionalizzare; anche nella fissità ci si disperde nel caos, e anche il disordine non è annullato da un’inquadratura immobile. L’assenza di direzione drammaturgica nella regia la rende de-stilizzata senza che sia una regia stupida, perché ogni momento è comprensibile e quadrato, la storia è raccontata con perizia drammatica, e ogni scena è pregna di quell’ambiguità, quel dubbio nelle dinamiche di potere e nelle relazioni sociali che crea i momenti più intensi e curiosi di ogni esperienza di visione. Konchalovsky crea un suo microcosmo in cui la Storia incontra la storia, e lo fa con il personaggio di Lyudmila, militante ex-stalinista che appartiene al partito comunista di Novočerkassk nel 1962 (sotto Nikita Kruschev). Vive sulla sua pelle una protesta operaia e la terribile risposta del KGB e dell’esercito, che sfocia in una strage, realmente accaduta, che è tra gli eventi più tragici interni all’URSS durante la Guerra Fredda. L’ipocrisia del regime e i conflitti interni sono evidenziati e raccontati metaforicamente perlopiù mediante il lavorio interiore della protagonista, che si trova a lottare con le proprie ideologie quando realizza che sua figlia potrebbe essere rimasta uccisa nel corso della rivolta.
Cari compagni! racconta una prospettiva interna al sistema dell’URSS, una persona che si trova di fronte a un evento disturbante che violenta la sua concezione del proprio ruolo nella società, e delle sue credenze politiche. Smarrita sia di fronte alle decisioni del KGB che al conflitto d’interesse con l’esercito e alla crisi di memoria del popolo impaurito dalle circostanze, Lyudmila va a piangere e a pregare quando capisce il menefreghismo a cui è arrivato il Partito, arriva a tradire parzialmente la Patria per il proprio interesse affettivo (che lo Stato non può capire, che a Kruschev non può arrivare), cerca di convivere col nonno cosacco disilluso fino a capirlo lentamente. La figlia è prima la pedina più vivace del gioco, e poi, un corpo da trovare e per cui sperare una sepoltura degna, e poi, una speranza, fuori dalla realtà, fuori dall’ideologia. Lo sguardo di Konchalovsky mantiene un’apparente freddezza perché sta raccontando qualcosa che, appunto, appare immobile, la convinzione cieca, la fedeltà dissennata, che viene annichilita; il regista coi suoi riquadri anticonvenzionali, che escludono parte dell’azione e disorientano, invece di esplicitare l’alienazione del pubblico finisce per dare una dimensione umana, che costruisce un umore paranoico sottile, che si protrae per la durata di tutta l’opera. Tutto è una divisione, KGB ed Esercito, genitori e figli, Stalin o Kruschev, strade da ripulire di sangue e interni in cui si cerca di evitare la violenza. È un film in cui qualsiasi speranza, pure, è duale: se sia madre che figlia non riescono più a ritrovare alcun riscontro, né in una forma del comunismo né in un’altra eventuale, futura, vuol dire che «andrà tutto bene», o perlomeno che ci sarà un bene da costruire, ma noi più di mezzo secolo dopo sappiamo che è arrivato un mondo diverso ma non più roseo, una Russia che è più “Russia” ma anche più povera di un’identità nazionale. Le stragi dell’oscuro passato sono state tracciate e dimenticate, e più che mai il reale è sbilenco, degli anni ’60 messi in scena come “storti” e decostruiti, visti col filtro del nostro tempo, privati di colore e gremiti di modernità, contemporaneità, e quindi di distorsione. Il tempo che non è più quello, ora, nel film, scorre in una nuova unità autoconclusa, staccata dalla Storia, un estratto in un cinema a metà tra il passato e il futuro, in cui questa speranza può sopravvivere solo con l’astrazione, l’illusione, l’ambiguità di un confronto senza risposta.
Premio speciale della giuria a Venezia in quest’anno assurdo, Cari compagni! è un urlo, un po’ attutito a tratti dallo scorrere della storia ma comunque potentissimo, ai compagni, a chi può capire o seguire il legame con questa fratellanza (e il suo tradimento), o anche a chi può non capire, ma deve cercare di capire. Cogliere la speranza di quel finale, continuare a porsi la domanda su cosa si desidera e si richiede da quest’arte sfaccettata quanto sostanzialmente ripetitiva. C’è il rapporto con lo scorrere dagli eventi, e dunque la necessità di ricostruzione della memoria, c’è il passo verso il dubbio, che crea la complessità senza la quale la narrazione filmica sarebbe priva di dialettica interna, e c’è il pathos di una storia intima. Non c’è nulla che trascenda, è tutto terra terra, e anche i massimi lirismi sono contenuti – appunto, per cercare più la distorsione nella Storia (e nella storia) che l’intimità. Non è che però ciò significhi che Cari compagni! non tende all’assoluto, anzi, dei film narrativo-storici smaccatamente politici visti a Venezia negli ultimi anni è uno dei più sorprendentemente umani, ambiziosi senza pretenziosità, veri senza spacciarsi come tali.
Nicola Settis