DOMINO (2019), di Brian De Palma
«Domino non è il mio progetto, non ho scritto la sceneggiatura. È la storia della vendetta di una coppia di poliziotti contro i terroristi che ne hanno ucciso un altro, ma l’intero aspetto politico sarà molto poco sfruttato. Il film è stato più per me più che altro una nuova opportunità per esplorare una narrazione visiva, con i terroristi ossessionati dall’idea che le loro azioni siano immediatamente visibili dal vivo su Internet o in TV. Ho avuto però molti problemi nei finanziamenti, non avevo mai vissuto un’esperienza così orribile sul set. Una gran parte del nostro team non è ancora stata pagata dai produttori danesi. Il film è finito e pronto per uscire, ma non ho idea di quale sarà il suo futuro, attualmente è nelle mani dei produttori. Questa è stata la mia prima esperienza in Danimarca, e molto probabilmente la mia ultima»1. Con queste parole lo stesso Brian De Palma, più di un anno fa, si smarcava dal non più suo, o forse mai realmente stato suo, Domino. Una presa di distanze, ampiamente sconfinata nel disconoscimento, nei confronti di un film nato male, da uno script confusionario e ai limiti dello scult di Petter Skavlan che mescola senza soluzione di continuità poco credibili intrighi internazionali, ISIS, CIA, terrorismi, doppie vite, vendette, bugie, agenti incapaci, telefoni cellulari e retorici melodrammi di quart’ordine in una giungla di sottotrame che si intrecciano ma mai in alcun modo si incastrano, in cui quella che dovrebbe essere la necessaria concatenazione di eventi cede il passo a scelte illogiche o a buchi di sceneggiatura assortiti e in cui nessuno dei personaggi ha nemmeno un briciolo di spessore psicologico, e proseguito peggio, con l’imposizione di attori televisivi (in parte estrapolati direttamente da Game of Thrones) che non sempre reggono, con i finanziamenti che hanno iniziato a tardare e a scarseggiare poco dopo l’inizio delle riprese, con la necessità di concludere senza la reale possibilità per De Palma di trasformare e riplasmare realmente il film compiendo ancora una volta quel miracolo già riuscito con Black Dahlia e con Il falò delle vanità, e infine con l’umiliazione massima e definitiva del final cut negato a uno dei massimi autori viventi, ancor più paradossale nei confronti di uno degli elementi di maggior spicco di quella New Hollywood che, proprio partendo dalla politica degli autori e dal diritto all’ultima parola sul montaggio, dagli anni Settanta in poi ha cambiato il cinema a stelle e strisce. Il risultato è una mezz’ora abbondante arbitrariamente tagliata dai produttori, sono i tanti elementi tipicamente depalmiani disseminati nel corso del film (gli schermi, le telecamere, la diretta, il drone, l’ascensore, la tensione, l’ipocrisia del quotidiano mentirsi, i cromatismi anni Ottanta, lo stesso terrorismo di Redacted) che appaiono quasi alla stregua di autocitazioni o vaghi spunti senza quasi mai essere realmente approfonditi e rinnovati, e ora l’uscita in una versione che, probabilmente, non avrebbe mai dovuto vedere la luce. Eppure, fra le tante tessere che non attaccano di un Domino che vorrebbe rifare Intrigo internazionale ma finisce a tratti per sembrarne una parodia (su tutte il continuare a parlare del poliziotto moribondo con la gola tagliata che, insieme al sostanziale ed eccessivo slapstick del continuo dimenticare e poi perdere la pistola del collega, quasi inficia la spettacolarità classica dell’inseguimento sui tetti e il successivo, questo sì magnifico, sequestro del latitante da parte dell’FBI intravvisto in una straordinaria soggettiva sfocata ad assi ribaltati), Brian De Palma per lo meno ci prova, finendo per innestare nel claudicare e nel continuo scivolare narrativo di un “brutto” film istanti quasi inaspettati di straordinaria, e come sempre ostinatamente voyeuristica, lucentezza cinematografica. Un tentativo estremo di sopperire con una grandissima regia agli scivoloni di una scrittura ai limiti dell’insalvabile, creando mirabili tasselli dell’eterno gioco (del fare cinema), tessere di un mosaico (di immagini, linguaggi e tensioni), schegge dopo la detonazione (di un film imploso). Sequenze pregne di una suspense d’altri tempi, di quel “tocco” autoriale che da sempre rinnova (non solo) Hitchcock in tutt’altre istanze, di quell’immaginario fatto di schermi, punti di vista e frammentazioni che, da quarant’anni, fa di De Palma – anche nei suoi lavori meno ispirati e riusciti – uno dei più grandi maestri della commistione fra classico e moderno. E probabilmente non è un caso, in tal senso, che la sequenza centrale di un film mutilato, maledetto, dilaniato, attaccato e bersagliato fino a implodere sia l’attacco kamikaze – trasmesso in diretta alla cellula terroristica su split screen da un doppio smartphone montato direttamente sul fucile e concluso con le immagini televisive a inquadrare la detonazione – lanciato, sulle tracce di Femme fatale, proprio sul red carpet di un Festival cinematografico, il Nederlands Film Festival di Utrecht. Quasi ad anticipare, al di là della metafora della “bomba” De Palma che da sempre distrugge, frammenta e ricombina la piatta standardizzazione del cinema commerciale, quel sabotaggio interno fino a scoppiare in mille pezzi che lo stesso Domino avrebbe subìto durante e immediatamente dopo la fine delle riprese.
Del resto, in un film fatto sin dal titolo di tessere e tasselli di differente e anzi opposto valore, in cui i reali giocatori rimarranno sempre fuori campo a controllare e spostare dall’alto i personaggi/pedine, è in un certo senso un prosieguo terribilmente naturale e paradossalmente filologico il fatto che nel corso della sua frustrante realizzazione sia diventato un film fatto ancor più di brandelli, frammenti, parti distinte, vette e cadute, perle disseminate lungo un percorso tortuoso di zoppie e ostacoli. Basterebbe, per ritrovare la mano di De Palma, la straordinaria sequenza di attesa e azione dell’attacco alla corrida, sospesa fra Omicidio in diretta e l’occhio-spia di Redacted, magistralmente costruita con le dilatazioni e i ralenti già de Gli Intoccabili e di Carlito’s way fra l’arena dei tori e il grattacielo dal quale lo sceicco controlla e guida i suoi con radio e droni. Una sequenza quasi asfissiante nel ritmo e nel mostrare fra il piano diversivo ad allontanare l’attenzione dal vero attentatore, l’esplosivo nascosto nelle bibite, l’occhio meccanico che vola in attesa di dare il via allo scoppio, la gente spintonata, il detonatore che cade di mano, e contemporaneamente i due poliziotti protagonisti che cercano di fermare l’attentato fra inseguimenti, lotte corpo a corpo e una tensione palpabile e crescente. Così come basterebbero, già citati, l’attentato al Festival e l’inseguimento sui tetti appesi alle grondaie con l’inevitabile volo di chi sin da subito non potrà che cadere, o ancora basterebbe l’utilizzo delle videocamere di sorveglianza nell’appartamento-base della CIA, con gli split screen a scrutare ogni angolo e poi con lo schermo del computer che sarà, mostrando a un padre il duro interrogatorio a cui viene sottoposto il pargolo, l’occasione per ricattare e trasformare in nuova pedina anche l’unico che, mosso da sanguinario spirito di vendetta, pareva in grado di muoversi da solo. Del resto, è forse proprio quello sul vecchio vizio statunitense di intromettersi negli affari degli altri continenti l’unico fra gli spunti che viene minimamente – per quanto banalmente – sfruttato e portato avanti, con tanto di lapidario e potente «Siamo americani, leggiamo le vostre mail» con cui un troppo gigioneggiante Guy Pierce liquida definitivamente chi, dopo essere stato usato, gli chiede per lo meno spiegazioni. Una critica ben più che velata anche all’America di quel sistema-cinema in cui ormai, ritornando alle parole di De Palma, rinnegato dalle major sin dal 2000, «a parte alcuni registi che hanno reale libertà creativa nei loro film come Nolan, Steven (Spielberg) o Martin (Scorsese), i soldi vanno ancora principalmente a sequel, riavvii e film di fumetti. Steven ha uno studio tutto suo e può finanziare i suoi film da solo, Martin lavora con attori molto potenti. E comunque, anche negli anni ’70 e ’80, mi sono sempre sentito in contrasto con il sistema di Hollywood. Ciò che sta accadendo in questo momento a Hollywood è una totale contraddizione con ciò che l’arte dovrebbe essere. I dirigenti di adesso controllano di nuovo i cineasti e vogliono decidere sul montaggio e sulle riprese. Anche se Mission to Mars non fosse stato un flop, probabilmente, avrei comunque lasciato quel sistema così come ho fatto»2. Magari senza aspettarsi di ritrovare le stesse identiche dinamiche denunciate nella (evidentemente non più Nuova) Hollywood, condite magari da finanziamenti fantasma, da una professionalità e da un rispetto ancora minori, anche al di fuori, in quell’Europa che aveva sempre guardato in maniera differente al cinema d’autore, alla libertà artistica, alla ricerca di nuove forme, e che invece estirpa, mozza, demolisce, banalizza, appiattisce, tenta quasi di affogare i momenti di grande cinema nel brodo della mediocrità. Questo Domino non può essere considerato in alcun modo, anche se realizzato usando sue immagini, un film di De Palma, o per lo meno non è “il film di De Palma”. Non è il film che avrebbe voluto fare, non è il film che avrebbe montato, non è il film che avrebbe consegnato alla Storia. Quel film non esiste e probabilmente non esisterà mai. Non si può che cercarne le tracce, gli sprazzi, le tessere di inusitata potenza che emergono fra una caduta e l’altra, fra un immobilismo e l’altro, fra un’incoerenza e l’altra. E non si può che difendere chi ha tentato di cavare il sangue dalle rape di una pessima sceneggiatura, di compiere l’ennesimo prodigio cinematografico, e che probabilmente, se sorretto e non ostacolato dalla sua stessa produzione, ci sarebbe pure riuscito. Ancora una volta. In attesa del prossimo film – e che sia davvero suo – “di Brian De Palma”. Un grandissimo autore, e non certo una firma da apporre in calce per riuscire a vendere ciò che di fatto gli è stato tolto a metà, sul più bello, e ridotto a poco più che un mero e dozzinale fondo di magazzino con cui riempire uno slot nel deserto estivo delle sale cinematografiche.
Marco Romagna