DOGMAN (2018), di Matteo Garrone

«Io vengo dalla pittura, la forza dei grandi quadri non sta nell’aspetto delle informazioni che ti danno, ma in come sono dipinti». Potremmo chiamarlo stile? Matteo Garrone non ama teorizzare. In diversi incontri che ha avuto con il pubblico, ha sempre messo umilmente le mani avanti, ammettendo di non amare far teoria sul suo cinema, ma preferendo dire quello che deve dire solo con la macchina da presa, per tramite dei suoi attori, con i suoi film. In questa frase che risale al 2008 (erano i giorni in cui Gomorra veniva presentato a Cannes, dove avrebbe vinto il Grand Prix), Garrone innanzi tutto rivela, a chi non lo sapesse, dove giacciono le sue origini artistiche, ma anche spiega un concetto che il suo ultimo film Dogman – squarcio vigoroso nella tela del concorso Cannes71 – esprime con inedita nitidezza: le componenti che fanno di un film un film d’autore sono molteplici, e non è soltanto il censimento dei movimenti di macchina e il computo del taglia e cuci che si fa in moviola a definire i confini di questa entità che chiamiamo stile.
Ma facciamo un passo indietro, alla realtà. Nel 1988, Pietro De Negri, toelettatore di cani detto Er Canaro, fece partire uno dei casi di cronaca nera più eclatanti, brutali e discussi della realtà italiana con l’omicidio del pugile e criminale Giancarlo Ricci. L’assassinio fu, per il Canaro, che era sotto l’effetto pesante di una notte di cocaina, una specie di spinta vendicativa contro un bruto che aveva fatto torto a lui e al resto del quartiere. La versione dei fatti di De Negri è stata più volte e per molti aspetti rivista e rivisitata poiché assolutamente e sicuramente lontana dagli eventi reali: per esempio il Canaro ha detto di aver seviziato e torturato Ricci per 7 ore prima di assassinarlo, quando invece era morto già 40 minuti dopo l’inizio della sofferenza, e ha detto di averlo messo in una delle sue gabbie per cani, ma non se n’è trovata traccia. Ha detto che i motivi del conflitto tra i due erano legati a una rapina per la quale hanno collaborato (realmente avvenuta) che ha portato però solo De Negri a finire in carcere (il che, invece, è falso: non ha mai scontato la pena).
Ecco, come già intuibile Dogman non è, né vuole essere, questa storia, non è, né vuole essere, la “realtà”. Ambientato in un paesaggio di provincia archetipico come sono archetipizzati i personaggi che lo popolano (le pretese di risarcimento da parte della madre della vittima sono assurde, dato che come sempre la cronaca per Garrone è un pretesto per l’indagine nell’uomo e dei suoi meandri), Dogman parla di Marcello, e non di Pietro, e del suo rapporto con gli altri commercianti del quartiere, che gli sono amici e che gli fanno sentire di appartenere a qualcosa. Ma a infestare questo irredimibile borgo degradato c’è Simone, e non Giancarlo, il pugile dilettante che, appesi i guantoni al chiodo, si diverte a seminare il panico e a bullizzare Marcello da cui dipende per il consumo di cocaina. Una cocaina a cui pure viene dato un valore nuovo, insolito, perché, come ha lucidamente notato Giona Nazzaro su MicroMega, non è più una sostanza da esibizionismo glamour consumato a strisce, ma sembra piuttosto un alimento di fortuna, l’unico rimasto, l’unico possibile, assunto a pizzichi sniffati freneticamente, ed è esemplificativa di questo tipo di dipendenza una scena, fra le più potenti di tutto il film (che pure contiene diverse invenzioni di grande cinema, fra gocce di sangue che colano dalle statue di cartapesta e cagnolini da riscaldare con amore), in cui la madre di Simone, interpretata dalla sempre presente e straordinaria Nunzia Schiano, scopre una bustina nel giubbotto del figlio, la rompe disperdendo la dose nell’ambiente, e mentre Simone la fagocita in un abbraccio chiede a Marcello di raccogliere la polvere bianca sul pavimento.

Nel 2015 Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e Nanni Moretti finiscono tutti e tre nel concorso internazionale del Festival di Cannes. Fu poi Dheepan di Audiard a conquistare la Palma d’Oro, ma la presenza di ben tre autori italiani fu considerata molto dalla stampa, molto più dei veri e propri giudizi ai film. Youth, secondo film internazionale di Sorrentino, per il suo manierismo raffazzonato fu da molti, probabilmente a torto, considerato la sua condanna a morte. Il racconto dei racconti è invece stato percepito come un grosso, eccessivo distacco dalla materia che solitamente compone i soggetti e l’estetica di Garrone: a differenza di come fece Pasolini con la Trilogia della Vita, Garrone non ha disossato l’oggetto letterario che ha usato come fonte, non l’ha asservito a un’esplicitazione sociale del passaggio del tempo e della pulsione umana, ma ha semmai costruito, con un’eleganza indubbia che però forse mai sfocia nella vera e colossale grandezza, un meccanismo di fiabe a incastro, emotivo al punto giusto, un po’ plastico, coraggioso e meritevole di difese, ma privo di reali appigli estetici e concettuali al di fuori dei soliti riferimenti televisivi. Solo Mia madre, con tutto il cuore di Nanni Moretti, ha raccolto più consensi che dissensi.
Nel 2018, sia Sorrentino che Garrone tornano al cinema, mentre Moretti probabilmente cova progetti di cui scopriremo qualcosa chissà quando. Per entrambi, in mezzo, dopo i film cannensi che molti hanno, sbagliando, percepito più o meno come fallimentari, ci sono state delle esperienze più o meno dirette con la serialità: Sorrentino ha concepito e costruito The Young Pope, e Garrone ha visto il suo Gomorra diventare una serie eponima, che a conti fatti si ispira al film quanto al romanzo di Saviano, e il cui successo all’estero sta nascondendo le conquiste passate dell’autore romano. Da una parte Sorrentino ha composto Loro 1 e Loro 2, un doppio film che è la sua opera più metalinguistica e stratificata, una tragedia del delirio multidirezionale che per quanto imperfetta suscita la necessità di una discussione costante; dall’altra, Garrone ha raccontato il suo Canaro, il suo ‘Dogman’, ed è tornato alle origini del suo cinema, al passato pre-Gomorra, a L’imbalsamatore e a Primo Amore, ai fatti di cronaca riletti e umanizzati. E Dogman è un ritorno disturbante, che vede in primo piano non più le star truccate di un Medioevo fantasy, ma di nuovo dei volti crudi e sinceri, delle maschere neorealiste, degli (s)conosciuti, sporchi, in mezzo a un marasma sin troppo reale. Non solo Marcell(in)o Fonte, quasi 20 anni di carriera in attesa di una consacrazione giunta solo adesso con il suo Canaro, e non solo Edoardo Pesce, (in)espressivo ben oltre la sua erculea fisicità, ma un intero cast/microcosmo di “facce” ben oltre gli “attori”, di presenze ben oltre i ruoli, di realtà ben oltre la finzione.
Se Gomorra si staccava dall’idea di fatto di cronaca per puntare tutto principalmente su un labirinto di conflitti verosimili, e se invece Reality portava ciò a estreme conseguenze grottesche, Dogman è del tutto purificato, con uno sguardo sulla realtà semplice e diretto ma per certi versi multiforme, rinnovato. È la storia di un Cristo che decide di deporre la propria croce per separarsi dall’autolesionismo più deflagrante e incontrollabile. Ed è una non-storia, un Rashomon di provincia non dichiarato: non ci sono più punti di vista, ma il punto di vista adottato è un punto di vista molteplice, che mischia i fatti reali con la confessione e la versione di De Negri in maniera tale da non dare una certezza, da avere un risvolto quasi allucinatorio, destinato a trovare il proprio climax in un respiro ansimante che non lascia respiro a nulla se non al vuoto, che rimane irremovibile per quanto la mdp si sposti radicalmente.

Dogman era un film che Garrone aveva “parcheggiato”: da tempo, sembra, era interessato a portare in scena la vicenda criminale del cosiddetto Canaro, il suo attirare in trappola Giancarlo Ricci con l’inganno, il suo torturarlo e poi il suo mutilarne brutalmente il cadavere, che ha fatto ritrovare alla polizia carbonizzato, ma con la cura di aver preservato i polpastrelli per favorire l’identificazione. Il film poi non si è più fatto, si è passati addirittura per la lavorazione avviata di un Pinocchio, che alla fine è stato posticipato per ritornare alla sceneggiatura che sarebbe diventata Dogman. Garrone è un regista esemplare, da questo punto di vista, e mai come in Dogman gli è riuscita una messinscena che allo stesso tempo è anche un’autoanalisi del proprio film-making, una riflessione sulle sue passioni e sulle sue pulsioni da regista, una discorso sul suo stesso cinema sulla base dei film precedenti. Tutti, Il racconto dei racconti compreso. C’è tutto dei film precedenti, e allo stesso tempo c’è qualcosa di nuovo.
C’è un’integrazione, per esempio, dello stile nervoso e anarchico con cui Garrone, che torna finalmente anche operatore, adopera la macchina a mano: al nuovo direttore della fotografia Nikolaj Brüel, il regista chiede un utilizzo più insistito della steady, e i pedinamenti si fanno meno nervosi, per far assumere valenza più inquietante e destabilizzante ai movimenti a spalla che sono soprattutto quelli di Marcello il Canaro e di Simone il pugile, quando fra i due si creano dei rapporti di forza, dapprima a senso unico, poi, nel finale, con il clamoroso e sanguinario ribaltamento. Inoltre, la palette cromatica è ben precisa: tutto il film è calato in un livore freddo, in toni di verde e di blu, i cieli sono sempre plumbei, non filtra mai un raggio di sole. Alla steady, Garrone dà un compito di sintesi espressiva e di esaustività narrativa: per esempio è straordinaria la sequenza, risolta con un solo piano sequenza, dell’ingresso in carcere di Marcello, preceduto dalla macchina da presa che poi lo abbandona per studiare le facce che da lì in avanti, per un anno, popoleranno il suo quotidiano. E che, intelligentemente, rimarranno per il resto fuori campo, tornando direttamente all’ambiente, e a Marcello ormai scarcerato che cerca invano di tornare a una sorta di normalità.
Già, l’ambiente. Anche sullo scenario di dissoluzione e degrado teatro della vicenda si legge un intervento creativo importante da parte di Garrone con la collaborazione dello scenografo Dimitri Capuani (collaborazione già iniziata dal film precedente). Il film è girato a Castel Volturno, una località che com’è noto porta con sé le ferite di un recente passato fatto di sfruttamento selvaggio e di stupro criminale del paesaggio che si riflette nella bruttura diffusa delle costruzioni di ogni tipo, dall’edilizia residenziale ai giardini comunali, dove non c’è un filo d’erba ma c’è un tappeto di sabbia e cemento, in un mondo nel quale il personaggio di Marcello accentua le sue caratteristiche anfibie, per esempio quando si muove furtivo sotto la pioggia per andare a fare lo sgarro al suo violento aguzzino distruggendogli la motocicletta fiammante con cui scorrazza per il quartiere. Eppure, Marcello è anfibio anche quando sta sott’acqua a esplorare i fondali con la figlia, unici momenti di felicità, e unici momenti in cui in cielo splende il sole, in una dimensione a metà fra il ricordo e la speranza. La riemersione, irrimediabilmente, coincide con il down emotivo, ed è il personaggio a margine (ma non marginale) della figlia a rendere conto di questa sfumatura. Dogman, nel suo ritorno a Primo amore e L’imbalsamatore tanto marcato da far pensare a questo film come alla chiusura di un’ideale trilogia, mette in scena un ambiente nei quali un “buono” è sconfitto in partenza, ricattato, incolpato, e poi emarginato, perché dopo il carcere non si può tornare alla normalità, non si può tornare a quella realtà, per lo meno non come se non fosse successo nulla.

Se è vero come è vero che Garrone analizza scarnifica i suoi film fino a farli rientrare dentro le logiche di un genere (Gomorra era un film di fantascienza, come L’imbalsamatore era un noir), allora Dogman è un western: c’è il mascherino alla Sergio Leone ricavato dalle veneziane, c’è la strada come quelle dei piccoli paesi del West dove passavano le carovane, con le varie botteghe, il saloon, il salone di barbiere, la banca, che qui è un compro oro, c’è la rapina con metodi ‘vintage’, c’è il bandito che semina il terrore, c’è una congiura contro di lui, c’è un antieroe che si vendica e c’è addirittura uno sceriffo, figura affidata da Garrone a una vecchia conoscenza, quell’Aniello Arena, detenuto/attore napoletano rinchiuso nel carcere di Volterra, che già si era caricato sulle spalle il peso di Reality.
Nulla è lasciato al caso in un film in cui comunque, a monte di ogni cosa, Garrone resta coerente alla sua idea di cinema, che ha a che fare con la libertà espressiva di tutte le componenti, con l’apertura all’imprevisto, con l’osservazione delle dinamiche del set e la loro conseguente traduzione in messinscena cinematografica. Per esempio, viene voglia di essere stati sul set, di sapere cosa Garrone abbia detto al suo Marcello, quando si assiste al finale, in cui il ‘povero Cristo’ trasporta sulle spalle il fardello della sua nemesi, in un calvario ansimante durante il quale ha anche il tempo di avere delle visioni, fin quando non lo ‘depone’, in un finale che può sembrare incompiuto ma che in realtà, sfumando sul respiro di Marcello, è forse solo impossibile che si compia.
C’è un cane chiuso nel freezer che diventerà ritorno sul luogo del delitto per salvarlo, perché ben prima dell’assassino c’è l’uomo. C’è, come si diceva, il rapporto del Canaro con la figlia, umanissimo e quasi spiazzante nella sua esacerbata dolcezza e nel proteggerla fino all’ultimo dall’ambiente circostante, quell’ambiente in cui una vittima non può che diventare carnefice, ma al contempo rimane e rimarrà per sempre una vittima. Della violenza, della prepotenza, di quel circondario cupo e nerissimo, avvilente, asfissiante, inumano, nel quale si è progressivamente sempre più isolati e dal quale è impossibile scappare. Certo, se ne L’imbalsamatore il rapporto del protagonista con l’inquietante nano era costruito non sulla fisicità del prepotente ex-pugile ma sulla psicologia e sull’ambiguità di un (mezzo) uomo viscido e pericoloso, in Dogman i personaggi sono più monolitici, perfettamente caratterizzati a costo di perdere qualcosa in sfumature, e questo porta le dinamiche fra loro a una stratificazione forse leggermente minore rispetto al passato. Ma la pura potenza delle immagini e di un linguaggio più curato e rifinito esplode sullo schermo in tutta la sua brillante oscurità, mentre la trasformazione del buono in (non) mostro è figlia di ben precisi rapporti di dominanza e sottomissione, di dipendenza reciproca, di sostanziale fascino della violenza e della paura mentre si procede inevitabilmente verso un inarrestabile inaridimento morale, lettura straordinariamente acuta e umana della (non) realtà. È un rapporto di dominanza e sottomissione, quello messo in scena, che non potrà che sfociare nel momento topico, quello dell’omicidio, quello in cui i cani sono spettatori di un duello nel quale uno dei due deve necessariamente morire, e non importa che ci sia o meno reale intenzione di uccidere. E quando, dopo aver liberato l’intero quartiere di un peso ormai insostenibile, tanto che i commercianti già avevano pensato seriamente ad assoldare un killer per far eliminare Simone non avendo però il coraggio di andare avanti, Marcello si presenterà trionfante con il suo trofeo, nessuno sarà più presente ad acclamarlo, perché ormai tutti lo hanno abbandonato al proprio destino, a un’ingenerosa e drammatica damnatio memoriae, alla leggenda più atroce, sulla quale Garrone, negando e riscrivendo la storia con astrazione temporale (dovrebbe essere la fine degli anni Ottanta, ma i debiti sono in Euro), compie con Dogman un suo personalissimo e straordinariamente cinematografico atto di giustizia. Tornando, se non proprio a raggiungere, per lo meno a lambire il suo miglior cinema, quello fatto di dubbi morali e di dinamiche umane, quello fatto di violenza psicologica e morale che non potrà che indirizzarsi verso ribaltamenti eclatanti, quello di spirali verso il male sociale e di reazioni umanissime e sofferte, quello che sospira al Neorealismo nei suoi ambienti e nel suo immergersi nella realtà, quello che in gran parte Matteo Garrone gira personalmente con la macchina a mano o a spalla, in una vicinanza fisica ai suoi attori, volti veri e tragici, e alla loro più bruciante dignità. Matteo è tornato, e non possiamo che giorne.

Elio Di Pace, Nicola Settis, Marco Romagna