CANE MANGIA CANE (2016), di Paul Schrader
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Il ritorno alla regia di Paul Schrader, presentato in chiusura della Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2016 – in Italia uscirà a luglio 2017 con il titolo Cane mangia cane -, è il ritorno dell’Autore statunitense anche al puro piacere del ludus cinematografico, è un gioco con le regole del cinema di genere e con il proprio pubblico che diverte e si diverte; è intrattenimento, come dichiarato da Schrader stesso, “fra Scorsese, Tarantino e Tom e Jerry”. Ma è anche, al di là della superficie splendidamente anni Novanta dell’exploitation (post)moderna, un lavoro per più motivi resistente, con il quale il regista ritrova la propria autorialità – negatagli nel precedente e pressoché disconosciuto Il nemico invisibile dai pesanti tagli imposti dalla produzione in fase di montaggio – in una totale libertà di forme e contenuti pronta a piegare ancora una volta l’ambito del cinema di genere alla prosecuzione dei suoi discorsi già in più occasioni intrapresi sull’illusorietà, sulla fatalità e, non in ultimo, sulla fine del cinema. Certo, non si pensi alle vette teoriche e concettuali raggiunte da The Canyons, né a quelle, navigando all’indietro con la memoria fra le sue regie o sceneggiature, di Hardcore, Auto Focus, Taxi Driver o Toro scatenato. Perché Dog eat dog è prima di tutto e senza dubbio un divertissement, e lo è dichiaratamente nei viraggi al rosa e nelle repentine accelerazioni nella narrazione, lo è dichiaratamente nell’atmosfera ilare e più che vagamente surreale che si respira, lo è dichiaratamente nelle immagini sature, oscure e spesso stranianti nei loro intenti cinedeliranti, lo è nei passaggi al bianco e nero e nei dialoghi che spesso girano – con una freschezza irriverente e smaccatamente tarantiniana – intorno ad argomenti futili, così come lo è dichiaratamente nelle forme di puro intrattenimento scelte, nuova vita di un fellas movie d’antan inserito, con profusione di risate, in una declinazione paranoica e psichedelica, postmoderna e fumettistica, commedia degli eccessi spesso ai limiti del pulp. È insomma, già nelle intenzioni, un film svagato ed esplosivo, un film che antepone la narrazione alla poetica, un film se vogliamo più “facile” rispetto ad altri di Schrader: una commedia in abiti da gangster.
Eppure, a partire dalla scelta, resistente a priori ai tempi di un ben più economico digitale, di utilizzare buona parte del non certo ricco budget per girare il film in 35mm, sarebbe non solo ingeneroso, ma anche limitativo pensare a Cane mangia cane “solo” come a un film minore, “solo” come a una riunione fra amici confluita in un’ora e mezza abbondante di criminali da strapazzo e di eventi paradossali, “solo” come a una semplice riduzione cinematografica, sceneggiata peraltro da Matthew Wilder e non da Schrader, del romanzo omonimo di Edward Bunker. Perché Cane mangia cane è anche molta improvvisazione sul set e sconfinata cinefilia, elementi tipicamente schraderiani che si rincorrono sotto la superficie fino a emergere; è anche il ritorno di un Autore simbolo della New Hollywood al final cut, altro fondamentale simbolo della New Hollywood come riconoscimento della dignità artistica del regista in rottura con le ferree regole produttive del cinema americano classico; è anche la risposta di un vero Autore, per quanto divertito, a un crime movie ormai quasi monopolizzato, appiattito e fagocitato dalle televisioni o ancor peggio da Netflix. Ed è anche, e forse soprattutto, la prima apparizione di Paul Schrader – al netto della sua “passeggiata” fra le GoPro nel cortissimo inserito dalla Biennale 2014 in Venezia70-Future Reloaded – come attore, nel ruolo del Boss dei Boss El Greco. Un punto che merita di essere approfondito: Paul Schrader si mette personalmente in scena nel ruolo del Superboss, ovvero il regista del film si mette personalmente alla regia della scena criminale, e quando tutto, come quasi sempre in Schrader e come del resto faranno più volte i suoi protagonisti durante la vicenda, sarà destinato ad andare a puttane, è impossibile non pensare al regista che viene diretto in The Canyons come punto di non ritorno, marcescenza, crollo dell’intero sistema, vedendone una prosecuzione forse meno esplicita e autoriale, ma in definitiva altrettanto efficace. Dog eat dog è un riappropriarsi dell’indipendenza produttiva, è un ribadire la politica degli Autori in faccia e in barba a chi pensa solo all’incasso, è una reazione a quel sistema che ha preso Paul Schrader, lo ha usato e rimasticato e adesso cerca di sbarazzarsene. I veri cani destinati a sbranarsi a vicenda, forse, sono proprio loro, le pedine di questo calderone sfilacciato e paranoico che ci ostiniamo a chiamare cinema.
Ma il cinema, appunto, è anche sogno, è anche passione, è anche Storia. E Dog eat dog è in questo senso il ritorno del regista, sceneggiatore e critico cinematografico anche ai suoi banditi più scapestrati e pasticcioni, alle sue pistole nascoste negli angoli più improbabili, alla sua irresistibile comicità nella tragedia, alla sua riflessione su una violenza insita nella società inarrestabile, incontrovertibile e imprevedibile, ma anche a una cinefilia mai doma, fra vecchi schermi televisivi e prostitute che parrebbero assomigliare a Marlene Dietrich, fino alle continue battute sulla presunta somiglianza fra Nicolas Cage e Humphrey Bogart. Memore dei bei vecchi tempi passati a scrivere sceneggiature per e con Martin Scorsese e Brian De Palma, Schrader mette in scena tre protagonisti inetti, pronti ad affogare nelle onde di un fato destinato a prendere il sopravvento, pronti a sbagliare e a lanciarsi in una spirale di paranoia, pallottole e morte, pronti a perdere tutto, ancora una volta e forse per sempre. Il fuori controllo Mad Dog (un Willem Defoe meravigliosamente violento e schizoide), il nerboruto Diesel (Christopher Matthew Cook) e il solo poco più diplomatico – ma sufficientemente per essere ammesso a colloquio dal Boss e per ricevere così indicazioni sul “lavoro sporco” da fare – Troy, interpretato da un Nicolas Cage che torna subito con Schrader per lavare via le scorie della brutta esperienza di Il nemico invisibile, sono violenti, pericolosi, eppure al contempo cartooneschi. Si sono conosciuti in galera, si sono salvati a vicenda la vita, e una volta fuori finiranno, travolti dal destino e dalla loro inadeguatezza, per togliersela, per sbranarsi fra di loro, per essere risucchiati dal caos. Perché la giustizia non esiste (più), e a farne le spese saranno tutti: colpevoli e innocenti. Senza pietà, in un crescendo rossiniano di cori gospel.
Sin dall’incipit, folgorante nel suo viraggio al rosa, nello sguardo di un Defoe mai così strafatto, negli omicidi inutili che finirà per perpetrare guidato dai fumi dell’eroina e dalle sue paranoie, il film di Schrader porta sullo schermo una realtà deformata, psichedelica, delirante eppure lucidissima. I tre protagonisti rapiranno, uccideranno, guadagneranno, andranno a puttane e brinderanno con il migliore champagne, ma si ritroveranno, durante il rapimento di un neonato, a sparare per errore – con tanto di testa letteralmente esplosa – a colui che avrebbe dovuto pagare il riscatto. È l’inizio della fine, è il montare del caos, è la narrazione che inizia a correre a cento all’ora, forse a mille. Mancano, come spesso capita nel cinema di Schrader, alcuni punti, lasciati forse troppo fuori campo: ci si potrebbe chiedere infatti che fine abbia fatto il bambino rapito nel momento in cui la narrazione scarta per prendere la direzione esplosiva che conduce al finale, ci si potrebbe chiedere come abbia fatto Troy, legato all’auto da una polizia i cui metodi sono molto più simili a quelli dei gangster di quanto non si possa immaginare, a liberarsi per presentarsi poco dopo, con i vestiti stracciati, a rapire un reverendo per rubargli l’auto. Paul Schrader chiede di stare al gioco, chiede di accettare qualche salto narrativo, chiede di far buon viso a qualche incongruenza nella trama per divertirsi e divertire: il suo cinema è fatto così, e forse proprio per questo è così affascinante. In cambio intrattiene, fa ridere di gusto, continua le sue tematiche, continua – seppure in maniera più “leggera” di altre volte – la sua poetica. Quella messa in scena è una nuova e nuovamente esplosiva declinazione della legge del più forte, dell’inadeguatezza dell’uomo di fronte al destino, della violenza come unico sfogo di un mondo nel quale, semplicemente, Dog eat dog, cane mangia cane, Dog eat dog, uomo mangia uomo, Dog eat dog, cinema mangia cinema. Non è fra le vette autoriali di Paul Schrader, né vuole essere eccezionale: è anzi un film sfacciatamente sgangherato, gigioneggiante, scanzonato, delirante. Libero. Un film, insomma, che ci teniamo stretti.
Marco Romagna