DOCUMENTI SU GIUSEPPE PINELLI (1970), di Elio Petri e Nelo Risi
Nel giorno del quarantasettesimo anniversario del “suicidio” di Giuseppe Pinelli, vogliamo dedicare questo articolo alla sua memoria e a quella di tutte le vittime dei troppi casi in cui “non è Stato nessuno”…
Quando il 12 dicembre 1969, in piazza Fontana a Milano, esplose l’ordigno con 7 chili di tritolo piazzato da mano fascista nella sede della banca dell’Agricoltura, Giuseppe Pinelli era probabilmente tranquillo in casa propria, o forse al bar, o magari nella sede del suo piccolo circolo anarchico a lavorare sul prossimo volantino. Erano gli anni delle rivolte studentesche e operaie, erano anni di lotta di classe e di ribaltamenti sociali, erano anni di manifestazioni e polizia politica con il solo ordine di reprimere, e Pinelli era noto da parecchio tempo a una Questura milanese che era solita prelevarlo e interrogarlo per intere giornate e nottate, sia che fosse davvero fra gli organizzatori di un qualche tumulto, sia che fosse completamente estraneo ai fatti. E di certo, nulla questa volta poteva sapere Pino Pinelli, Anarchico, di un attentato compiuto dallo stragismo nero di Ordine Nuovo – e del resto, come evidenziato già al tempo da Indro Montanelli1, maestro del giornalismo e noto conservatore, le vigliacche bombe lanciate nel mucchio sono sempre fasciste, mentre il terrorismo di sinistra ha fatto sì ricorso alla violenza, ma affrontando di persona e colpendo bersagli ben precisi senza mai nascondersi nell’anonimato o, ancor peggio, nell’uccisione casuale di innocenti. Piazza Fontana è stata “la madre di tutte le stragi”, uno degli eventi-cardine della storia recente d’Italia, di fatto l’ingresso negli anni di piombo: anni di stragi, di tensioni, di false accuse contro innocenti, di morti più o meno misteriose, di polvere nascosta sotto ai tappeti, di misteri sui quali non sapremo probabilmente mai la verità.
Come naturale conseguenza, in Italia i Settanta sono stati anni di cinema politico, militante, smaccatamente proletario, impegnato a tentare di cambiare davvero qualcosa, a prendere le parti del Popolo e remare al suo fianco, a tentare di squarciare quel velo di omertà e bugie di Stato da sempre usate come fumo da lanciare negli occhi. Un cinema-grimaldello, per scardinare le derive torbide dello Stato e di quegli anni usando le armi che il mezzo stesso mette a disposizione: la denuncia, il paradosso, l’ironia. Erano anni di cambiamenti, in cui anche il cinema di Elio Petri, dopo aver esplorato le forme del thriller, del neorealismo, della commedia dai toni surreali, della fantascienza e del dramma umano dell’artista in crisi, era destinato a cambiare, a spostarsi dall’uomo alla società, a radicalizzarsi e porsi come un cinema di dubbio e complessità, come un cinema di fanghi e nebbie, come un cinema di contraddizioni e ambiguità: il cinema politico e ideologico che ha reso quello del regista romano uno dei più importanti sguardi cinematografici (non solo) su quel periodo storico. Dopo questo Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, la magistrale sezione indipendente – in realtà l’unica davvero degna di nota e sulla quale ci concentreremo – che apre il documentario Documenti su Giuseppe Pinelli realizzato nel ’70 da Nelo Risi – per il resto interessante ma tutto sommato cronachistico e un (bel) po’ retorico nell’indagine dall’interno del movimento anarchico e dalla famiglia del ragazzo “suicida” –, il volto di Gian Maria Volonté sarà ancora con Petri per tuonare “repressione e civiltà” con la sua coscienza sporchissima in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, e poi l’anno successivo per essere licenziato dalla fabbrica contro cui si è rivoltato nel momento in cui La classe operaia va in Paradiso, per poi diventare infine, sei anni più tardi, la sostanziale proiezione di Aldo Moro nel Presidente di Todo Modo.
In Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, urgente e minimale nella sua camera fissa o quasi sulla stanza, nel suo ampio spazio all’improvvisazione e nel suo continuo passaggio dal registro televisivo a quello teatrale, Gian Maria Volonté si pone subito come portavoce di chi ha partecipato alla realizzazione del breve film. Con le modalità che verranno riprese poi nel 2014 da Sabina Guzzanti per raccontare La Trattativa fra lo Stato e la mafia, “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo e ci proponiamo attraverso l’uso del nostro specifico di ricostruire le tre versioni ufficiali, quelle avvallate dalla Magistratura, sul presunto suicidio dell’Anarchico Pinelli”. Contro uno Stato che ai problemi e ai ribollimenti sociali oppone(va) una politica oscurantista, ben più propenso a reprimere in ogni modo i moti “pericolosi” a costo di insabbiare per proteggere i suoi uomini piuttosto che ad ammettere un tragico ma umano errore di valutazione (e del resto non è che le ben più recenti molotov portate dai questurini nella scuola Diaz dopo il massacro attuato nei confronti dei no-global presenti a Genova per il G8 del 2001 siano concettualmente molto differenti, né lo sono le continue provocazioni nei confronti della famiglia Cucchi, come nemmeno è tanto diversa la grata che “deviò” attraverso l’autostrada fino a Gabriele Sandri che dormiva in auto il proiettile esploso “verso l’alto” da Spaccarotella, e potremmo andare avanti nel tragico elenco), l’unica arma rimasta era probabilmente quella dell’ironia più amara e pungente, del più caustico sarcasmo, per smontare in una risata il castello di bugie costruito intorno al caso.
Le tre versioni “ufficiali” dei “suicidio” per defenestrazione di Giuseppe Pinelli messe in scena da Elio Petri – con la collaborazione di Ugo Pirro alle linee guida del progetto, dell’operatore Luigi Kuveiller e degli attori, con tanto di ciak in campo e un solo microfono a gelato usato dai protagonisti Gian Maria Volonté, Renzo Montagnani, Luigi Diberti e Giancarlo Dettori per narrare i fatti veri o presunti, presentarsi e intervistarsi – al pari della Morte accidentale di un Anarchico messa in scena a partire dallo stesso anno da Dario Fo2 fanno emergere tutte le contraddizioni fra le tre versioni ufficiali dell’accaduto, rivelando come il suicidio di Pinelli fosse di fatto materialmente impossibile e prendendo apertamente e sonoramente per il culo lo Stato e le sue mezze verità di comodo che finiscono per sembrare totali menzogne. “Perculare” per combattere, provocare per far riflettere, far ridere di risate amare per instillare dubbi atroci: la funzione stessa della satira politica. L’unica verità accertata sul caso Pinelli è che dopo tre giorni e tre notti – tempo peraltro al di fuori della legalità per trattenere un uomo senza formalizzare un’accusa – di serrati interrogatori condotti dal commissario Luigi Calabresi3 e dai suoi uomini, proprio poco dopo la telefonata a casa per reperire il libretto ferroviario che ha poi comprovato l’assoluta estraneità di Pinelli a un qualsiasi fatto correlato con piazza Fontana, Giuseppe Pinelli “cadde” dalla finestra dell’ufficio di Calabresi nella Questura di Milano. Suicida, dissero. Tanto che l’allora questore Marcello Guida, nel comunicare la notizia alla stampa, si affrettò anche a dire che questo atto estremo nient’altro sarebbe stato che una definitiva ammissione di colpevolezza, salvo poi ritrattare la propria baldanzosa dichiarazione di fronte alla dimostrazione incontrovertibile dell’alibi di ferro di Pinelli.
L’unico punto di contatto fra tutte le versioni ufficiali, confermato poi anche dalle verità processuali, parrebbe essere quello della temporanea assenza di Calabresi dalla stanza: erano invece presenti uomini della squadra politica. Nella prima versione, Pinelli si sarebbe lanciato “con balzo felino” dalla finestra socchiusa mentre i poliziotti – tutti promossi di grado nel giro di pochi mesi dopo questo avvenimento – sarebbero stati distratti in un altro punto della stanza. Secondo le altre due versioni, invece, gli uomini avrebbero visto Pinelli alzarsi e lanciarsi, ma “Non ce l’abbiamo fatta”, con tanto di puntualizzazione, nella terza e ultima edizione dei ‘fatti’ approvata dalla magistratura, su una scarpa rimasta in mano a uno degli uomini nella stanza mentre Pinelli venne trovato a tre metri dal muro e con tutte e due le scarpe ai piedi. Il gruppo di lavoratori dello spettacolo, nell’impossibilità di sapere cosa sia accaduto senza fare ricorso all’immaginazione più o meno fervida, mette l’accento su ciò che senza dubbio non è accaduto, sulle incongruenze, sulle contraddizioni, sui “buchi di sceneggiatura” nella storia – per non dire nellE storiE – che ci è stata raccontata. E poi c’è spazio, una volta instillati il dubbio e la rabbia, per chi racconta di essere stato più volte provocato “Perché non ti butti?” davanti alla finestra aperta durante un interrogatorio; come c’è spazio, dopo le incongruenze, per le analogie. Ma non sono analogie fra le diverse versioni del caso Pinelli, sono analogie con un’altra storia, quella di Romeo Frezzi, anch’egli Anarchico, ucciso di botte dalla polizia del 1897 durante un violento interrogatorio e che solo l’ostinazione de L’Avanti nel fare emergere la verità “scagionerà” dalla “verità ufficiale” di suicidio. “Si è suicidato, si è suicidato, si è suicidato”, recitato a gran voce come un mantra durante la defenestrazione, per non prendersi la responsabilità delle mani troppo pesanti. I Documenti su Giuseppe Pinelli, sia nel documentario di Nelo Risi sia soprattutto nelle Tre ipotesi di Elio Petri, sono un faro puntato contro le psicosi di Stato, contro la necessità di avere un colpevole da dare in pasto alla stampa e alla gente in modo da continuare a farla sentire protetta anche quando la polizia brancola nel buio, contro le menzogne, le coperture, le inaccettabili ‘versioni ufficiali’.
Dal caso Pinelli, la Storia stessa cambierà radicalmente: da una parte le ripetute bugie “a fin di bene” sulle stragi di Stato e ciò che alle stragi di Stato ha gravitato intorno, dall’altra la cultura del sospetto e della mancanza di fiducia nelle istituzioni, su cui oggi come ieri attecchiscono ancora il populismo di ogni colore e la manipolazione. Da una parte Pino Pinelli, innocente ucciso per errore sperando che nessuno se ne accorgesse nella faccia di bronzo di uno Stato che nega l’evidenza e promuove i responsabili, dall’altra un processo mediatico, artistico e non solo contro Calabresi, che alle opere di denuncia come questa vide ben presto affiancarsi le minacce sui muri d’Italia, l’estremismo che lo rese solo e vulnerabile, e poi l’agguato. Con la madre di tutte le stragi l’Italia era cambiata, era come un animale ferito e soffocato dai due lati dal terrorismo e dalle menzogne di Stato, dal sangue e dalla sfiducia, dalla repressione e dal ribollire civile. Una guerra mai ufficialmente dichiarata e di sole vittime, una guerra che abbiamo perso e che ancora continuiamo a perdere. Tutti. Perché i tempi sono cambiati, il terrorismo interno parrebbe essere stato sconfitto, ma ancora c’è chi perde la vita in strada o in questura e vede il proprio assassino impunito, protetto dal caldo abbraccio della divisa che indossa e continuerà a indossare disonorandola ogni giorno con la propria ipocrisia. Quella di tutto uno Stato.
Marco Romagna