DJON ÁFRICA (2018), di João Miller Guerra e Filipa Reis

A volte l’attualità entra di prepotenza nella lettura di un film, lo stratifica, ne allarga ulteriormente gli orizzonti, al di là dei suoi contenuti e al di là delle sue intenzioni. Djon África, interessante esordio alla finzione della coppia di documentaristi lusitani João Miller Guerra e Filipa Reis, mette in scena un viaggio alla ricerca di un padre mai conosciuto che diventa l’occasione, per un venticinquenne capoverdiano nato e cresciuto in Portogallo, di trovare le proprie radici nell’essenza più primigenia di Capo Verde, nei sapori tradizionali, nelle feste popolari, nei paesaggi e negli incontri con gli uomini e soprattutto con le donne dell’arcipelago. Intelligentemente sospeso fra il romanzo di formazione e il trattato etnografico, Djon África non vuole essere in alcun modo un film sull’emigrazione, non è quello il suo punto, ma fra la prima e l’ultima proiezione del film a Rotterdam, per lo meno per chi vive in Italia, i suoi sensi si sono inevitabilmente ampliati. Mentre il film del duo Guerra-Reis veniva mostrato per le sale della città olandese, a Macerata c’è stato l’attentato fascista (sì, proprio “attentato fascista”, l’unico nome con cui si può chiamare ciò che è accaduto) di Luca Traini verso chiunque avesse “la colpa” di avere la pelle più scura della sua, e c’è stata, probabilmente ancor più grave dei suoi colpi d’arma da fuoco, la levata di scudi di chi ha il coraggio di difendere un atto del genere, di minimizzarlo, di parlare di “situazioni insostenibili” che porterebbero la gente a esplodere, quando le uniche situazioni davvero insostenibili sono quelle che costringono intere orde di disperati ad abbandonare la propria terra, a scappare, a prendere il mare cercando di rifarsi altrove una vita normale, andando incontro al razzismo, alla paura ignorante di chi preferisce avere un capro espiatorio contro il quale sfogare le proprie frustrazioni, e magari pure alle pallottole esplose da un convinto neofascista improvvisatosi giustiziere di non colpevoli. Ebbene, cosa c’entra tutto questo con Djon África? Poco, anzi nulla. Ma c’è un riflesso storico, incarnato nei moli che più volte ritornano durante il film dai quali chissà quanti furono i bastimenti di schiavi partiti per le coste del Portogallo, che inevitabilmente fonde la stringente attualità di Macerata, le sue cause e i secoli passati di Praia nello stesso pensiero. Sta tutto nel passaporto capoverdiano con il quale Miguel, che a Capo Verde nemmeno era mai stato, vive sostanzialmente come un clandestino nel Paese dove è nato, cresciuto da sua nonna senza avere in sostanza alcuna memoria né dei suoi genitori né di che cosa voglia realmente dire, a livello culturale, la sua origine. Da semplice dialogo in aereo sulle ragioni del proprio viaggiare, con l’attentato di Macerata il passaporto di Miguel è diventato uno dei centri focali, un bruciante simbolo di come lo ius soli sia ormai sempre più urgente, e di quanto sia pressante la necessità che ognuno di noi acquisisca, così come Miguel, quella consapevolezza storica, politica, culturale e umana che sembra invece sempre più lontana dalle pagine di cronaca e dai pensieri di un’opinione pubblica sempre più abbarbicata nella xenofobia e nel sistematico odio.
Si preferisce scaricare il barile, si preferisce sfogarsi su chi è più indifeso, si preferisce “dare la colpa” agli extracomunitari, quando invece le uniche situazioni in cui ha senso parlare di “colpa”, gli unici fatti che hanno un vero e proprio colpevole identificabile, sono proprio quelli dei paesi arabi e africani resi ormai invivibili, senza più risorse, senza più autosufficienza, dai quali l’unica soluzione per una parvenza di normalità è diventata la fuga, emigrare lasciando indietro una vita intera. E di tutto questo la colpa, l’unica colpa, è nostra, occidentale, europea. È una colpa storica chiamata colonialismo, che ha per secoli impoverito e sfruttato le terre sottomesse, che ha schiavizzato chi le abitava, che ha imposto e vampirizzato, che ha saccheggiato e distrutto. Ovviamente l’attentato di Macerata non ha nulla in comune con Djon África, e anzi se si volesse maliziosamente collegarlo a un film uscito nelle sale che potrebbe avere fomentato “l’italianità” del pistolero è semmai su Sono tornato di Luca Miniero che potrebbe cadere qualche sospetto: un film che nasce con lo scopo esattamente opposto, ma che per funzionare come ha funzionato il suo omologo tedesco Lui è tornato avrebbe (avuto) bisogno della stessa cultura della vergogna che la Germania prova nei confronti del nazismo, mentre in Italia il terreno più fertile in questo orribile periodo storico è quello della nostalgia fascista, secondo la quale vedere un ritorno di Mussolini sullo schermo potrebbe essere in potenza molto pericoloso. Ma, in mezzo alle tante riflessioni che scaturiscono dal film di João Miller Guerra e Filipa Reis, il folle gesto di Macerata ha inevitabilmente scagliato un cono di luce sulle colpe coloniali che tutti noi europei portiamo sulla pelle per diritto di nascita, quasi come se fossero una sorta di peccato originale. Capo Verde, forse la vera protagonista di un film dal quale traspare chiaro il passato da documentaristi dei due realizzatori, dominata dal Portogallo fino al vicino 1975 dopo interi secoli da crocevia e base fondamentale del commercio di schiavi africani a causa della sua strategica posizione geografica, è uno dei più perfetti paradigmi di come il nostro continente abbia saputo sfruttare e impoverire gli altri Paesi, di come siamo stati noi, con le nostre deportazioni, con la nostra tratta di esseri umani e con i nostri interessi economici, a creare l’incertezza, quando non la disperazione, di uomini e donne senza (più) terra, senza (più) famiglia, con un’identità tutta da riscoprire e da ritrovare. Chi è stato colpito dal fascismo di Traini, e più in generale chi ha dovuto dire addio alla sua terra per spingersi fin qui, si trova nella stessa condizione di sospensione di Miguel, nella stessa incertezza di chi è senza patria, nella stessa condizione di viaggio alla ricerca di una tranquillità. Ma il viaggio di Miguel non è lo stesso che intraprese suo padre verso l’Europa, è a ritroso, verso le proprie radici, verso un senso di appartenenza negato dalle circostanze, verso la consapevolezza di chi ha bisogno di scoprire il proprio essere africano in quell’arcipelago a circa 500km dalle coste del Senegal fatto di scogliere e di paesaggi brulli, fatto di riti antichissimi e di arancioni mozzafiato, fatto di spiagge e di vecchie corriere che procedono lentamente sulle strade polverose.

Ma non divaghiamo, entriamo nel film, o meglio, nella sua genesi, che in un certo senso contiene da sola il suo senso cinematografico e politico più profondo. Basti pensare a un dettaglio: in tutto Djon África, lavoro orgogliosamente di gruppo del Collettivo Terratreme dal quale già lo scorso anno era uscito il buonissimo A fabrica de Nada di Pedro Pinho qui co-sceneggiatore, è impossibile leggere i nomi dei registi. Non appariranno nei titoli di coda, spartiti fra attori, dediche, musiche e ringraziamenti, così come non apparivano in quelli di testa, che non si stagliano sul Portogallo del lungo prologo ma possono liberarsi solo al momento del viaggio, dopo oltre venti minuti, quando finalmente Miguel si accomoda sulla poltrona dell’aereo che lo porterà per la prima volta a Capo Verde aprendo alla surreale allegria, già amara, delle ballerine e del volo popolato solo da donne bellissime. Nei titoli ci sono solo i nomi dei protagonisti, quelli di chi, fra i sapidi e simbolici intenti di messinscena etnografica e gli echi del cinema di attori secondo Cassavetes, recita in sostanza se stesso, o per lo meno una parte di se stesso, sullo schermo. La scelta di João Miller Guerra e Filipa Reis di farsi da parte lasciando la centralità assoluta ai capoverdiani e al collettivo Terratreme, nome viscontiano di chi in Portogallo (ma anche in Brasile, con Ricardo Pretti impegnato come montatore del film) vuole unirsi e collaborare come il popolo di Aci Trezza contro i latifondisti per rivoluzionare il sistema (cinema), è una chiara dichiarazione di intenti artistica e politica, è un ben preciso (non) marchio d’autore con il quale si può riassumere l’etica che muove la macchina da presa dei registi. Un’etica destinata a rispecchiarsi anche nella lingua filmica e nei suoi innesti surreali, che vanno a destrutturare e distruggere ogni tipo di stereotipo panafricano prendendolo e virandolo nell’acido, fra mucche ricoperte di mosche e macchine agricole come forza distruttrice che appiattisce e uccide. Fra i nomi degli attori, l’unico che merita un font più grande degli altri è quello di Miguel Moreira, che interpreta il protagonista Miguel Vieira Ramos, rastafariano più per moda che per reale spirito afro che mai ha assaporato il luogo del quale è cittadino, mentre il Portogallo che gli ha dato i natali mai lo ha ufficialmente adottato nei suoi 25 anni di vita. Miguel ama le donne e ama cambiarle con frequenza – quella con cui taccheggia in un negozio di vestiti, la splendida rossa con la quale saluterà l’Europa, la capoverdiana che lo rapina nottetempo –, vorrebbe essere una sorta di edonista errante che mangia, beve, ama e non disdegna una canna, ma in realtà si sente semplicemente un uomo fuori posto, abbandonato da una madre scomparsa e mai tornata e da un padre arrestato e deportato. Avrà anche la pelle di un delfino, Miguel, ma è pur sempre un “turista”, irregolare in Portogallo e “straniero” a Capo Verde, privo di una vera casa, europeo in Africa, africano in Europa, meticcio culturale alla ricerca della propria natura.
Il suo viaggio alla ricerca del padre in giro per l’arcipelago vulcanico è fatto di incontri e di riti, di appartenenza e di cultura, di paesaggi urbani e naturali incorniciati nelle scogliere, di occhi che si dischiudono sull’isola dai suggestivi camera car che escono dai tunnel, di cachupa come piatto da preparare con il sudore della fronte e di grogue come migliore amico dell’uomo perché con la sua forte gradazione alcolica toglie i problemi, ma al contempo anche come nemico del popolo perché può far nuocere alle proprie famiglie, può essere un ulteriore strumento di controllo da parte di chi governa, ruba, umilia, calpesta un popolo che, nonostante tutto, si arrangia e va avanti con orgoglio e appartenenza. C’è un ramo mai conosciuto della famiglia impegnato nel rito religioso a un anno dalla morte di quella vecchia zia che probabilmente avrebbe saputo rispondere alle domande esistenziali di Miguel, ci sono intere squadre di calcio femminile, ci sono formose autostoppiste, ci sono suonatori e anziani bevitori, ci sono pescatori seduti di fronte alla burrasca, ci sono famiglie che dormono in 5 o 6 sullo stesso letto, ci sono piatti da lavare per pagare un conto, ci sono infinite camminate nella natura, e soprattutto c’è la vecchina incarnazione dello spirito dell’Africa con la quale scoprire le campagne, il lavoro, il senso più intimo di Capo Verde, destinata a diventare una nuova nonna per Miguel, e destinata a godersi la vita fino all’ultimo secondo sbucciando fagioli, bevendo, fumando e parlando di sesso. Fra Praia, Terrafal e São Niculao, in un’etnografia di ricette e di preparazioni, di feste e di sole, di povertà e di bellezza, di colori sgargianti e di musiche, di mare e di città, di villaggi e di campi, di scogliere e di montagne, di distese rigogliose e d’erba ingiallita dal sole battente, Miguel imparerà ad ammettere in primo luogo a se stesso i suoi vizi e imparerà a conoscere le sue virtù, imparerà a percepire la propria identità, la propria cultura, le proprie radici. Fino alla maturità di chi riesce a dire «Io sono mio padre», e in realtà non solo suo: una delle sue fidanzate è incinta, per Miguel è probabilmente ora di tornare in Portogallo, di correre verso quella che forse, finalmente conscio della propria appartenenza africana, può accettare come casa e come scelta. Non lo sappiamo. Tutto questo, intelligentemente, il film non lo dice, lo lascia in sospeso in un finale con Miguel ancora a Capo Verde, a passeggio per le strade della città, fra la gente, mentre risuonano l’allegria e la speranza di costruire il futuro di un’Africa indipendente, quella stessa Africa della fisicità dei saltatori bloccati nei fermi immagine, quella stessa Africa di cui Miguel è parte. È il momento, ancora una volta surreale, del non-incontro col padre quando ormai è troppo tardi, quando non interessa più, perché il padre ora è Miguel, e non dovrà ripetere gli errori del suo. Padre e figlio si sfiorano ma non si trovano, fra ironia amara e orgoglio, quello stesso orgoglio cantato negli anni Settanta da Pedrinho e che va cercato giorno dopo giorno dentro e fuori di sé, fino all’orizzonte, fino all’ennesimo tramonto dal quale farsi baciare.

Marco Romagna