DIVINES (2016), di Houda Benyamina
Mentre il Festival di Cannes, e conseguentemente la sezione parallela della Quinzaine des Réalisateurs, stanno iniziando a volgere al termine, arriva il tempo dei primi bilanci. Bilanci che parlano, quantomeno per quanto riguarda una Quinzaine alla quale ancora manca un solo film, quel Dog eat dog di Paul Schrader che già in partenza si assestava fra i lungometraggi più attesi del Festival e sulla cui buonissima qualità nutriamo in realtà ben pochi dubbi, di una selezione tutto sommato in linea con le aspettative, in grado di regalare lavori per diversi motivi indispensabili come i previsti Neruda di Pablo Larràin e Poesìa Sin Fin di Alejandro Jodorowsky, ma anche splendide sorprese come quel gioiellino in stop motion che si è rivelato essere Ma vie de Courgette del franco-svizzero Claude Barras o un così notevole Marco Bellocchio, tornato quasi inaspettatamente molto vicino ai suoi livelli migliori con Fai bei sogni. Paolo Virzì e Claudio Giovannesi, gli altri due italiani giunti al teatro annesso al JW Marriott di Cannes, storica sede Quinzaine, non hanno affatto sfigurato, e in linea generale la carrellata di film si è assestata su livelli più che accettabili, con lavori più o meno riusciti, qualche caduta più o meno profonda, ma in sostanza nulla di davvero impresentabile. Almeno fino a stamattina, momento del penultimo lungometraggio selezionato. Divines, opera prima in solitaria – ma aveva già diretto a quattro mani con Guillaume Tordjman Ghetto Child nel 2014 – della regista francese Houda Benyamina, butta più o meno a casaccio nel calderone minoranze etniche e religioni, spaccio di droga e linguaggio del corpo, necessità di osare per far soldi e quartieri disagiati, seduzione e incendi, iPhone 6 plus e madri alcoolizzate con le gambe troppo spesso aperte, pugni in faccia e banconote che piovono, pompieri “pigri” e aggressioni sessuali, aitanti ballerini e ricordi di amiche in sovrappeso. E il risultato, come si può facilmente immaginare, è semplicemente disastroso e forse anche furbetto, una trappola che sfrutta le banlieue senza amarle, che le schiaccia in una rappresentazione stereotipata, che le soffoca in un moralismo retorico di fondo di cui non si sentiva il bisogno.
Divines è un film che nemmeno per un secondo empatizza con i suoi personaggi, ma rimane freddo, distaccato, spesso confusionario, incapace di trovare una vera e propria direzione né una forma adeguata. Dai titoli di testa che scorrono su filmati, rigorosamente e fastidiosamente verticali, girati dalle due protagoniste con il cellulare, fino alla sequela frustrante e apparentemente interminabile di finali inanellati, dalla pioggia di denaro alla borsa lasciata alla madre – perché anche se è una pessima madre è pur sempre la mamma –, da un appuntamento che non andrà in porto alla stazione – con conseguente perdita dell’amore – alla retorica più spicciola dei soldi sporchi in fiamme e che quindi non saranno più di nessuno, dal pentimento tardivo al panico, dai vigili del fuoco che non intervengono e lasciano morire una persona fino a un ultimo, vano e ricattatorio, tentativo di strappare le lacrime con una patetica riproposizione, stavolta come memoria, dei filmati iniziali, il senso del film va ricercato in una mera morale limitata e anche un po’ bacchettona, secondo la quale le scorciatoie nella vita sono sbagliate, secondo la quale la delinquenza può portare vantaggi immediati ma alla lunga tutto sarà destinato ad andare in vacca, secondo la quale una volta andati oltre un certo limite – in questo caso un limite che, dopo lo spaccio di droga, si avvicina alla prostituzione – rimarrà solo un grosso buco nero di rimpianti e di dolore. In questo senso, e prima ancora degli strafalcioni narrativi o dei grossi limiti di messa in scena, Divines è un film per sua stessa ispirazione chiuso, depresso, castrante, che annulla i sogni, incapace di vedere un briciolo di luce in fondo al tunnel. Tanto da farci chiedere, in questa totale mancanza di orizzonti, quale senso abbia fare cinema. Dov’è la voglia di lottare, di creare qualcosa, di rialzarsi? Dov’è la creazione? E non è il nichilismo, che sarebbe più che legittimo, a essere preso in considerazione, né tantomeno il pessimismo cosmico: quello di Houda Benyamina è semplicemente un film senza la minima vitalità, un esordio apparentemente già svogliato, stanco, drammaticamente irrisolto, retorico quanto un vecchio trombone, immaturo quanto un ragazzino che gioca con la videocamera. Profondamente reazionario nel suo urlare a vuoto il contrario.
Sin dalle primissime battute, Divines fa tutto quello che può per infastidire lo spettatore: Dounia (Oulaya Amamra, unico elemento davvero convincente del film) e l’amica del cuore Maimouna vengono sballottate in salti di palo in frasca apparentemente infiniti fra le religioni differenti delle protagoniste, l’inefficacia della scuola, il night club dove la madre di Dounia è solita ubriacarsi ogni sera, il taccheggio al supermercato, la graticcia del teatro dal quale guardare, se necessario sputando, le prove dei ballerini fra cui l’aitante Djigui, fino alla decisione di diventare ricche lavorando per Rebecca, rispettata spacciatrice della zona. Fra panetti di hashish, sogni di una Ferrari, filmati con l’iPhone avuto in regalo da Rebecca, un paio di pestaggi subiti, auto bruciate, ritorni a casa trovando la madre a letto con il tirapiedi di Rebecca, usi criminosi del Requiem di Mozart su allenamenti al sacco e banconote baciate e vacui discorsi sulla necessità di avere ambizione e sapere osare per puntare in alto, oppure sul saper alternare pugni e carezze, il film di Houda Benyamina si trascina nei suoi raccordi di montaggio non funzionali, nella sua mescolanza insensata della danza come linguaggio del corpo e della seduzione come arma letale ma anche a doppio taglio, nei suoi personaggi tutti desiderosi di cambiare vita eppure nessuno, a parte proprio Djigui che otterrà la parte nel ballo e partirà in tournée, in grado di fare una sola scelta giusta. Ora fastidioso e ora patetico, ora poco credibile e ora retorico, passando per un tentativo di stupro e per un incendio invocato più volte nel corso del film, nell’esordio di Houda Benyamina non funziona praticamente nulla: tecnicamente risibile, concettualmente vuoto, umanamente preoccupante. Non resta che dimenticarlo in fretta, lavarne le scorie prima possibile, fingere che non sia mai esistito.
Marco Romagna